domenica 5 aprile 2009

Economia del dono: Serge Latouche ed il ritorno del dono




IL RITORNO DEL DONO

Ho intitolato la mia relazione "Il ritorno del dono". Perché "Il ritorno del dono"? Perché oggi il tema del dono è possiamo dire di moda. Ma non è sempre stato così: il tema del dono - prima che il MAUSS (Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali) lo riscoprisse 20 anni fa dedicandogli diversi numeri e numerosi articoli - non aveva, si può dire, alcun diritto di cittadinanza nelle scienze sociali e nel dibattito politico, né godeva di buona stampa. Infatti, lungi dall’essere considerato come il fondamento dei legami sociali, il tema del dono evocava piuttosto le Dame di Carità, la beneficenza. L’attuale moltiplicarsi di libri e articoli su questo tema mostra che la situazione è radicalmente mutata.
Fra le pubblicazioni in francese che conosco meglio, possiamo citare Alain Caillé, ovviamente, e Jeacques Godbout., che è anche abbastanza conosciuto in Italia, ma anche Jeacques Derrida, un filosofo che al dono ha dedicato un libro. E poi Jean-Luc Marion, Maurice Godelier, Michael Singleton, Emanuel Levinas, Guy Nicolas, ecc. Anche fra gli anglosassoni si possono menzionare, fra gli altri, Mary Douglas, Kris Gregory, ecc. In Italia ci sono molte traduzioni e anche alcuni libri originali. Non li conosco tutti, ma conosco un libro di Pier Paolo Donati, di Bologna.
Alla questione, si sono interessate anche alcuni economisti come George Akerlof, ecc.
È come se l’invasione, la retorica, e l’inflazione editoriale del tema del dono, fossero esattamente proporzionali a quelli del mercato nel contesto di una mondializzazione, che non è altro che la totale mercantilizzazione del mondo.
Il dominio dell’universo mercantile sulla sfera non mercantile è ben illustrato dall’ultima opera di Jeacques Godbout sul dono, che ha mostrato che il sistema ospedaliero canadese, fino ad anni recenti, era dominato dal volontariato e i salariati provocano addirittura un certo imbarazzo, sentivano il bisogno di giustificare il loro salario. Oggi è completamente differente: un volontario che opera nel settore ospedaliero è potenzialmente considerato come uno che usurpa il lavoro del salariato. Il principio dominante non è più lo stesso.
Siamo in presenza di un paradosso sul quale vale la pena di interrogarsi. Ma anche siamo in presenza di un abbozzo di risoluzione di un’impasse sul quale ci siamo cacciati.
Allora ho diviso la mia relazione in due parti: la prima parte: "L’onnipresenza paradossale del dono", la seconda: "Il carattere sovversivo dello spirito del dono".
1. L’onnipresenza paradossale del dono
Questa presenza del dono tanto nel Nord quanto nel Sud è paradossale. Perché è paradossale? Perché il dono è presentato, generalmente, come un retaggio pre-moderno, una cosa arcaica. Per quel che riguarda il Sud, è vero che da decenni gli esperti di sviluppo criticano i legami di solidarietà, le spese ostentatorie, la scarsa monetarizzazione del mondo rurale, l’assenza di dinamica, di creazione di bisogni nuovi, l’insufficienza della produzione per la vendita. Tutte queste cose vicine allo spirito del dono costituiscono, secondo alcuni autori, resistenze arcaiche al libro gioco dei meccanismi naturali, cioè dei meccanismi del mercato. Freni insopportabili all’accumulazione produttiva del capitale e blocchi inammissibili al sacrosanto sviluppo e al sacrosanto libero mercato, libero scambio.
Or dunque: non è sicuro che l’onnipresenza del dono nelle società africane sia soltanto una sopravvivenza provvisoria. La scoperta dell’altra Africa, per riprendere il titolo del mio libro, ci interroga su questo punto. La sopravvivenza di questo Pianeta Nero fa supporre che vi regni solo la miseria: chiunque ci rifletta in buona fede non può fare a meno di porsi la questione del mistero di questa sopravvivenza. Si tratta di un problema sia teorico che pratico.
Bisogna proprio constatare che questa terra africana alla deriva - il cui prodotto interno lordo rappresenta, per quanto possa sembrare ridicolo, meno del 2% del PIL planetario - conta circa 800 milioni di persone. Non tutte sono scheletri famelici sfuggiti ai campi della morte; non tutte vivono della sola carità internazionale. Questi naufraghi dello sviluppo non sono indiani confinati in una riserva conservati come le specie in via di estinzione a testimonianza di un passato ormai finito per sempre.
C’è dunque, accanto all’abbandono dell’Africa ufficiale, accanto alla decrepitezza dell’Africa occidentalizzata, un’altra Africa ben vivente, se non in buona salute. Questa Africa degli esuli dell’economia mondiale e della società planetaria, continua non di meno a vivere e a voler vivere anche contro corrente. Quest’altra Africa non è quella della razionalità economica: se il mercato vi è presente non vi è onnipresente, non è una società di mercato nel senso di una società "tutto mercato". D’altra parte non si tratta nemmeno più di un’Africa tradizionale, comunitaria, se mai questa è mai esistita. È un’Africa di bricolage, dell’arrangiarsi, in tutti i campi e a tutti i livelli, tra il dono e il mercato. Tra i rituali oblativi e la mondializzazione dell’economia. Per aver perso la battaglia economica, l’Africa ha forse definitivamente perso la guerra delle civiltà? Questa è la domanda. Penso di no: l’economia è stata sconfitta, ma la società è sopravvissuta a tale disfatta. Ciò significa che le funzioni che noi attribuiamo alle istanze tecnica ed economica, la cosiddetta produzione delle ricchezze, sono state in ogni caso assunte, bene o male, dalla società.
La spiegazione più plausibile è dunque che l’economia e la tecnica sono confluite di nuovo nel sociale, sono state reincorporate", reinbedded. Questo si vede sia nel fenomeno dell’economia informale, che nella persistenza della solidarietà quotidiana.
Le Afriche dunque, attraverso la loro diversità, rappresentano un caso certo complesso ma esemplare di incorporazione parziale dell’economico nel sociale. Ciò che chiamiamo "economia informale" e che in realtà è una vera società vernacolare o neoclanica, come scritto nel mio libro, è la migliore illustrazione di questo fenomeno. Al di là della pluralità, della pluri-attività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai collegati, come si chiamano a Grand Yoff, alla periferia di Dakar e che ho studiato nel mio libro, è l’importanza attribuita al tempo, all’energia e alle risorse destinate ai rapporti sociali. Anche se vi si osserva una attività intensa, sarebbe improprio, nella maggior parte dei casi, parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni, prendono molto tempo: dare e prendere in prestito; donare e ricevere; aiutarsi reciprocamente; fare una ordinazione; consegnare; informarsi… occupano gran parte della giornata senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno, gioco.
Come osservava un padre gesuita un po’ stregone - un nganga, come si dice in Africa - Eric de Rosny che vive a Douala, nel Cameroun: "La festa occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione". Tutti gli economisti lo dicono. Ma questa festa è appropriata ai bisogni affettivi di questa popolazione. L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai collegati piuttosto di quello di essere un creditore che ci rimette sempre.
Ora, come Jacques Godbout ha finemente osservato nel suo libro Lo spirito del dono, se il dono funziona bene ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male, ciascuno ritiene di aver ricevuto di meno. È come una coppia: quando funziona bene ciascuno dei due sposi, pensano di ricevere più, ma quando uno pensa di dare più che ricevere, allora il divorzio non è molto lontano.
Anche se qui non abbiamo il tempo di sviluppare tutto quello che ho scritto nel mio libro L’Altra Africa sul funzionamento della società vernacolare, su questa società neoclanica, non sarà comunque difficile riconoscervi una logica molto diversa dalla logica mercantile. È la logica del dono e dei rituali oblativi. Come dovunque, il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma qui lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato.
Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire così come lo analizza Marcel Mauss, famoso sociologo francese. La cosa centrale, fondamentale in questa logica del dono è il fatto che il legame sostituisce il bene. Risulta chiaramente a questo punto che dire che nella società vernacolare l’economia è re-incorporata nel sociale o dire che l’economia neoclanica funziona secondo le logiche del dono significa dire la stessa cosa: le due formulazioni sono del tutto equivalente.
Allora, questo funzionamento della società vernacolare si iscrive nella persistenza, o meglio nel riemergere di una certa solidarietà africana. Le società africane hanno ignorato a lungo l’individualismo e continuano in buona misura a farlo, nonostante fortissime spinte dei processi di individuazione.
L’imperialismo del sociale si manifesta attraverso l’importanza dei rapporti di parentela. La parentela si estende non solo al gruppo famigliare allargato, ma serve da stampo nel quale si prendono forma i rapporti di amicizia, di vicinato, di associazione sportiva, culturale, politica, religiosa addirittura i rapporti di lavoro e le forme di potere. Essa è riattivata e rafforzata dalle cerimonia, dal culto degli antenati, dai legami con la terra, dai rapporti con il mondo dell’invisibile. Tutto ciò genera la famosa solidarietà africana che non ha veramente equivalente altrove.
Questa solidarietà polimorfa resiste anche all’emigrazione e la si può osservare fin nelle periferie delle grandi città: Parigi, ma anche Roma, Bologna, ecc. Presso i maliani, i senegalesi, con l’ospitalità obbligatoria per i fratelli, fratelli nel senso africano che è molto allargato; con le rimesse che fanno vivere la famiglia rimasta in patria; con le collette per costruire la moschea o la scuola nel villaggio.
Questa fortissima pregnanza del sociale permette di rompere l’isolamento e l’incognito. Nei casi più difficili essa è letteralmente ciò che permette di resistere, di sopravvivere. Essa è anche la causa del successo della specificità della società vernacolare africana. Gli obblighi di donare, di ricevere e di restituire intessono i legami tra gli uomini e gli dei, tra i vivi e i morti, tra i genitori e i figli, tra i fratelli maggiori e i cadetti, tra i sessi, all’interno delle classi di età, ecc. ecc.
Essi piegano fortemente le cosiddette leggi del mercato; limitano i guasti dei rapporti mercantili; assicurano un minimo di garanzia contro l’esclusione economica e sociale.
L’economista antiutilitarista constata quindi che il mercato assoluto non esiste. In altri termini: il fondamento dello scambio sociale non è e non può essere il mercato. Fondamentalmente il rapporto sociale non si basa e non può basarsi sulla legge della domanda e dell’offerta.
Certo, l’interesse è presente anche nei rituali oblativi, come nei rapporti domestici. Ma ciò che interessa all’economista critico non è dimostrare che il dono assoluto, la gratuità integrale non esistono ma, al contrario, è mostrare che l’interesse, nel senso stesso del calcolo economico, non è né esclusivo né onnipresente. In breve il dono esiste e ciò può allentare la stretta dell’imperialismo economico.
Le osservazioni dell’antropologo Guy Nicolas, in un libro che è stato tradotto dalla Bollati Boringhieri, a proposito degli Haussa del Niger che lui ha studiato e che chiama "i mercanti per eccellenza" sono completamente trasferibili a tutta l’Africa e si possono riprendere in parte le sue analisi.
Lungi dallo scomparire con l’irruzione della modernità, i rituali oblativi conservono tanta più importanza in quanto rappresentano per una società un modo di preservare la propria identità pur inserendosi, per amore o per forza, nel mercato mondiale.
Scrive Guy Nicolas: "Le pratiche oblative in piena trasformazione da noi osservate, non erano vestigia di un passato arcaico, ma una risposta moderna a minacce contemporanee che mettono in gioco la permanenza dell’identità di questa società. Esse avevano una funzione politica manifesta, attestavano inoltre l’efficacia della funzione simbolica, in quanto principio di base dello scambio interumano contrapposto a quello del mercato. Egli precisa: è come se una sorta di comprensione spontanea dei pericoli che essa corre [la funzione simbolica n.d.r.) a causa del fascino esercitato su di lei dalla moneta e dai beni di importazione, la portasse ad annullare questi ultimi snaturandoli, trasformandoli in puri gettoni di comunicazione: infatti sono proprio i soldi e il loro potere che minacciano più direttamente le basi della organizzazione collettiva, a cominciare dalla parentela. È per procurarsene che la sposa si allontana dai legami del matrimonio, che il figlio abbandona il padre, che il suddito si rifiuta di giurare fedeltà e che il signore multa il suo cliente, il salariato, o lo spoglia. È perché alcuni vogliono possederne di più che altri muoiono di fame e di miseria: situazione impensabile in una collettività africana tradizionale.
Il ricorso al dono appare nello stesso contesto come la manifestazione di una volontà di resistenza al potere esterno utilizzando le risorse del rito oblativo al fine di opporre a tale potere un contropotere popolare il quale impedisca al primo di realizzare i suoi fini ultimi, cioè la distruzione di ogni quadro sociale estraneo al mercato e la proletarizzazione totale delle popolazioni locali in vista di un loro inserimento sul mercato in quanto produttori o consumatori, isolati, atomizzati e concorrenti all’interno di un ordine omologante. Egli conclude: il gioco oblativo ha acquisito pertanto un carattere sovversivo e la consuetudine serve al produttore per mantenere un contropotere. Osservazioni recenti sulle cerimonie di donne di Dakar confermano assolutamente questa analisi, i rituali oblativi si trasformano ma si mantengono e a volte si rinforzano.
A questo punto, a fianco dell’importanza del dono nei Paesi sottosviluppati come forma di resistenza, all’imperialismo dell’economico e del mercato, è interessante parlare della riscoperta del dono da noi, in Occidente. Si può parlare di un’importanza sommersa del dono che costituisce lo zoccolo della socialità primaria.
Non ci si è accorti finora che le osservazioni sul dono sono sempre opera di persone estranee alla società interessata e che non disponiamo di osservazioni etnografiche sistematiche sulla nostra società. È evidente che il dominio mitico dell’economia ci rende opaca l’onnipresenza, anche da noi, del dono. E non meno certo che questa pregnanza dell’economico ci spinge ad essere più sensibili al dominio del dono nelle società primitive e anche nelle società tradizionali o nelle società moderne esotiche, come quelle di cui ho parlato, gli haussa, i senegalesi, ecc.
L’esperienza della ospitalità mauritana, della quale ho parlato nel mio libro L’altra Africa, e della società vernacolare mi ha fatto prendere coscienza dell’importanza del dono in una società straniera e arcaica, tra virgolette, per certi aspetti. Tuttavia, anche qui in Africa, i miei interlocutori locali con i quali parlavo di queste scoperte rimanevano scettici. Lo sguardo che portavano sulla loro società non era molto diverso dal modo in cui noi consideriamo la nostra. E questo tanto più in quanto fortemente occidentalizzati gli intellettuali africani sono già molto toccati dalla propaganda economica e tengono molto a mettere in risalto la modernità del loro Paese. I rapporti mercantili e la legge della domanda e dell’offerta sembrano loro la realtà economica dominante e l’economia del dono un aspetto marginale, possiamo dire folcloristico, tutt’al più una sopravvivenza, un insieme di buone maniere al di fuori della economia. Non sembrava loro che questi rapporti di dono fossero diversi dai nostri rituali di cortesia, con mazzi di fiori alla padrona di casa e i regali di compleanno. Tutt’al più tendono trovarci tirchi, meschini, individualistici non molto generosi. Riconoscono tuttavia, non senza reticenza, che una parte importante di beni e servizi circola al di fuori della sfera mercantile ma rimangono perplessi di fronte a questa "economia non economica" e di fronte alla coesistenza di quella realtà con le altre dure realtà della economia monetaria.
Ciò pone a noi occidentali un interrogativo sulla nostra realtà, nonché sul posto che vi occupa il dono e sul significato dell’economia di cui siamo portatori.
Una parte considerevole della nostra morale e della nostra vita risiede tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e insieme della libertà. Osservava già Marcel Mauss, in conclusione dell’Essai sur le don. E continuava, nella stessa vena, compiacendosi dell’esistenza di persone e classi che conservano i costumi di un tempo ecc.
Questo riconoscimento da parte di Mauss dell’attualità del dono è importante e interessante ma resta viziato dal sospetto di evoluzionismo. Si tratta per lui soltanto di un retaggio da considerare con nostalgia e non di un principio attivo sempre vivente.
Ma il dono e la sua logica sono stati sempre ben presenti nella realtà occidentale. Alain Caillé ha a lungo insistito sul fatto che tutta la base della socialità primaria si forma sul dono. Lui la presenta così: Stato, mercato, scienza sono istituzioni reali addirittura le istituzioni chiavi dell’ordine sociale moderno. Tuttavia non incarnano affatto la società nella sua interezza, anzi formano lo spazio di quella che proponiamo di chiamare socialità secondaria in cui le relazioni tra esseri umani e sociali non sono relazioni tra persone ma tra funzioni e in cui esse sono subordinate ad un’esigenza di impersonalità, sia che questa prenda la forma di uguaglianza davanti alle leggi dello Stato, sia che abbia la forma di equivalenza sul mercato economico o quella della oggettività scientifica. Ma sotto questa forma di socialità secondaria, a monte e a valle, sopravvive nella società moderna, come in ogni società un’altra società: quella della socialità primaria, quella dei rapporti tra persona e persona e in quanto tale soggetta all’esigenza della personalizzazione. È nel registro di questa socialità che si sviluppano le alleanze, le parentele, la famiglia e quindi i rapporti di vicinato, l’amicizia e buona parte della vita associativa.
Niente famiglia, niente riproduzione delle generazioni, niente cittadinanza, perfino nessun spirito di corpo nei collettivi di lavoro senza farvi ricorso. Anche Marcel Mauss invocava questa socialità primaria contemporanea. Ne abbiamo un esempio nella vita di famiglia attuale anche senza aver bisogno di risalire alle famiglie di tipo gruppo politico domestico. Viviamo gli uni con gli altri in uno stato al tempo stesso comunitario e individualistico, di reciprocità diverse, di buoni servizi resi reciprocamente, alcuni senza spirito di ricompensa altri con ricompensa obbligatoria, altri ancora a senso rigorosamente unico poiché dovete fare per vostro figlio quel che avreste desiderato che vostro padre facesse per voi.
Malgrado questa dichiarazione di Mauss provenga da un testo posteriore al Saggio sul dono, egli non ne trae ulteriori conseguenze. Al catalogo già impressionante delle sopravvivenze del dono stabilito dagli autori evocati si possono aggiungere ancora alcune osservazioni più personali per esempio sulla vita mondana, o sul militanza. I sentimenti generosi non restano pure disposizioni, essi nutrono interventi pratici importanti. La militanza politica, umanitaria, sociale, religiosa è proprio il rimborso di un debito. Questi buoni sentimenti si scambiano in raccolte di fondi, partecipazioni a dei congressi - come questo - contributi, oboli, versamenti di ogni sorta. Bisogna manifestare la propria solidarietà, il proprio desiderio di fare qualcosa, di trasformare il mondo, di lavorare ad un mondo altro più giusto, ecc. ovvero per l’Altro mondo.
L’attivismo, l’impegno sono doni e controdoni. Ciò che nutriva i gruppi o le sette di ieri, oggi ispira le Ong - tra l’altro ribattezzate da poco Organizzazioni di Solidarietà Internazionale - che si contano a migliaia. Fioriscono sullo stesso terreno. Le somme destinate a questi investimenti dai rientri incerti, dalle scadenze imprevedibili, sono lungi dall’essere trascurabili. Ci sarebbero in Francia, secondo varie stime, circa 3 mila Organizzazioni Non Governative di ogni dimensione, animate da 25 mila militanti, dotate complessivamente di risorse vicine ad 1.300 milioni di franchi. Essi costituiscono tuttavia soltanto la parte economicamente più visibile di questa vasta economia invisibile. Un collaboratore del MAUSS ha potuto quantificare il peso economico di queste risorse in tre quarti del prodotto interno lordo francese. Nel Canada, secondo statistiche, il valore monetario del lavoro non remunerato, incluso il settore dei legami primari e quello del dono agli stranieri, rappresenta il 34% del PIL. È degno di nota che questa stima non è inferiore alle stime minuziose di Guy Nicolas sui rituali oblativi degli haussa del Niger: questi ultimi rappresenterebbero circa un terzo delle spese e dei ricavi nei bilanci degli attori. Per la Mauritania, secondo le mie osservazioni, si otterrebbero cifre dello stesso ordine.
Così più di un terzo dell’economia sarebbe inclusa in un Terzo settore, cioè al di fuori dello Stato e del mercato.
È noto che per rinforzare il loro debito nei confronti del Sole, gli Aztechi gli offrivano il cuore palpitante di vittime a metà consenzienti. Tutto lo sforzo dell’Occidente per negare l’esistenza di un debito non sta forse per crollare di fronte al ritorno del rimosso, stimolato dalla moltiplicazione delle catastrofi ecologiche e dal profilarsi di minacce ben precise? Questa è la domanda.
Eccoci così giunti alla seconda parte del mio discorso.
2. Il carattere sovversivo dello spirito del dono.
Questa riscoperta recente del dono tanto nel funzionamento della socialità primaria quanto come concetto teorico che poteva far fronte al mercato mi sembra fondamentale nel momento del trionfo esclusivo del capitalismo mondiale e del dominio arrogante del liberismo economico.
Essa favorisce lo sviluppo di rimedi ai danni generati al sistema. Tuttavia questi rimedi non sono privi di ambiguità. Consideriamo le soluzioni proposte per combattere l’esclusione. Ricerche accurate proverebbero senza ombra di dubbio la presenza dello spirito del dono a fianco della società primaria in numerosi altri settori della vita economica. Anche nel 21 Secolo la vita non è un gigantesco supermercato, non è vero. L’insieme dei mercati non forma ancora, fortunatamente, il Mercato la M maiuscola. Tuttavia la convinzione che tutto si vende e tutto si compra produce gli effetti di una profezia autorealizzantesi. È presso gli esclusi o presso coloro che con essi sono solidali che si produce un comportamento reattivo: aspirazione a ritrovare un po’ d’altruismo in una società senza pietà, necessità di sostenersi a vicenda per resistere in appoggio agli svantaggiati. Tutta l’economia solidale e l’economia cosiddetta plurale si scrivono in questa riscoperta dello spirito del dono e della necessità di aggiungere un supplemento di anima al mercato. I sistemi di scambio locale sono un esempio interessante e caratteristico di questa ricerca di un’alternativa.
Di che si tratta? I sistemi di scambio locale sono associazioni in cui membri scambiano, al di fuori dal mercato e in base ad una moneta appositamente creata e valida all’interno del gruppo, beni e servizi di ogni genere. I prodotti scambiati vanno da lavori di riparazione domestica, o di automobili a servizi di baby-sitter, passando per corsi di lingua, massaggi, fornitura di ortaggi, prestito di utensili, e ovviamente tutta la gamma di prodotti di seconda mano. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così persone escluse dal lavoro le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato possono ritrovare forme di attività e, quel che è forse più importante, di riconoscimento sociale e al medesimo tempo complementi di risorse non trascurabili.
Questi sistemi di scambio locale sono nati in una società individualista. Il loro padre è rappresentato dai LETS (Local Exchange Trade System) sorti nel mondo anglosassone, razionale e, com’è noto, protestante. Il lato molto formale e in una parola puritano di questa organizzazione contrattuale, democratica con tutta la sua sottintesa trasparenza, senso del dovere, serietà di spirito - tutte le incontestabili qualità dei nostri vicini d’oltre Manica - non è in sintonia con lo spirito latino, più caldo, certo, ma anche più clientelare meno scrupoloso, e certamente molto indisciplinato. Benché anche nei LETS i partecipanti mettano l’accento sull’arricchimento personale e sulla rottura dell’isolamento, l’obiettivo utilitaristico resta prioritario.
I membri dei sistemi locali di scambio locali francesi, mi sembra vanno più in là dei loro cugini anglosassoni: hanno subito collegato la loro pratica allo spirito del dono. "La cosa più importante del SEL" (Système d’échange local) - dichiara una madre di famiglia - "sono gli incontri: ho conosciuto persone che altrimenti non avrei mai frequentato". Per la maggior parte dei membri dei SEL il legame è più importante del bene. Esattamente secondo la logica del dono. C’è convivialità grazie alle riunioni, alle fiere dei SEL. Sono occasioni di festa e costituiscono momenti importanti della vita sociale così come le innumerevole feste degli abitanti di Grand Yoff, questa grande periferia di Dakar che ho studiato nel mio libro L’altra Africa. Questa aderenza alla trilogia del dono, dare-ricevere-restituire, lo zoccolo duro delle società olistiche, non è assolutamente evidente in un’organizzazione che per prima cosa inventa una moneta di scambio e regola i suoi movimenti col computer.
Così facendo i Sel devono fare i conti con la sanzione per gli abusi. "Credo molto di più al controllo sociale" - dichiara uno dei fondatori Alain Bertrand, animatore del primo SEL francese - "Ci si conosce tutti. Chi si azzarda a indebitarsi senza restituire i servizi dovuti alla collettività, sarebbe messo all’indice dai suoi vicini". Lo studio di un italiano, un libro che è uscito recentemente di cui ho fatto la prefazione, Paolo Coluccia, La banca del tempo - Un’azione di solidarietà e di reciprocità, analizza una delle forme più affascinanti della creatività popolare: quella delle piccole comunità di scambio di beni, servizi, tempo e saperi. Mostra tutti i vantaggi che tali iniziative possono apportare per preservare e ricostruire il tessuto sociale di prossimità. L’inchiesta che lui fa sulle banche del tempo italiane è piena, ricca di particolari concreti.
Essa è completata da un panorama suggestivo delle esperienze comparabili negli altri Paesi. Informazioni sulle esperienze certo di importanza ineguale come quella di ITHACA negli Stati Uniti, i Tauschringe tedeschi, i Sistemi di scambio locale francesi (SEL), i LETS in Gran Bretagna e anche i SEC (Systèmes d’échanges communautaires) in Senegal, questi ultimi fatti ad imitazione dei SEL francesi. È una cosa molto interessante perché in una certa misura i SEC rappresentano l’imitazione di una creazione popolare africana che dopo è tornata in Africa in altra forma.
Tutte queste informazioni forniscono dati preziosi sulla storia, sul funzionamento e sul vissuto di queste micro-società .
Ma tutto questo non è privo di ambiguità: c’è una ambiguità della sovversione. Prendiamo il problema della portata del fenomeno e del suo significato. Esso si limita a ricreare rapporti di buon vicinato nelle zone di esclusione? La dimensione sociale di queste esperienze non deve mascherare il loro eventuale effetto sovversivo globale.
Si può attribuire ai vari LETS, SEL, banche del tempo, ecc. l’ambizione non solo di rattoppare un tessuto sociale che si lacera ovunque e di prolungare l’agonia di una megamacchina ingiusta e contraddittoria che corre irrimediabilmente verso al catastrofe, ma anche di costituire un vero e proprio laboratorio volontario del futuro paragonabile a quello involontario delle cittadine di periferia africane. In entrambi i casi si tratta di embrioni di società alternativa alla modernità al di là del cataclisma dello sviluppo. Bisogna riconoscere che i discorsi sull’economia plurale e, più in generale, attorno a questo tipo di logica associativa per mezzo della quale si pensa di risolvere le contraddizioni sociali attraverso l’impiego di virtuosi dispositivi tecnici ed un appello alla buona volontà, non si muovono su una linea veramente alternativa. Si tratterebbe di una economia articolata su tre poli: il mercato, lo Stato ed un polo di reciprocità. Questi poli corrispondono ai differenti principi di organizzazione della società: il principio di mercato, il principi di ridistribuzione e il principio di reciprocità.
È il loro riconoscimento ed è la loro ibridazione che, secondo Jean-Luis Laville (un sociologo francese, anche lui tradotto da Bollati Boringhieri), permettono di pensare la nozione di economia plurale in opposizione al principio di unicità del mercato.
La costruzione sociale della struttura associativa che in condizioni particolari tiene insieme e ibrida volontari, utenti e istituzioni, ovvero reciprocità, mercato e Stato rappresenterebbe la possibilità di reincarnare l’economia nella società.
Ora, con il capitalismo, con l’avvento del mercato come principio sociale, si determina una vera rottura che fa della società una società di mercato che assorbe o sussume gli altri principi. L’insieme della vita sociale è sottoposta alla legge economica e alla pretesa che il lavoro, la moneta e la natura, divengano merci.
Con la riaffermazione del liberismo nel corso degli anni ’80 il mercato si presenta esattamente come astratto principio unico di organizzazione sociale.
Il problema non consiste dunque in un eccesso di crescita economica che si tratterrebbe di ricondurre a giuste proporzioni mediante la costruzione di corpi intermedi tra mercato e Stato - come il cosiddetto Terzo Settore o l’economia plurale - ma è la forma stessa della società che diventa economia. È una forma di socializzazione che si impone a tutta la società con una violenza tanto più legittima quanto più appare generata dalla necessità.
L’economia non si sviluppa contro o fuori dalla società. Essa piuttosto la ingloba e procede alla sua riorganizzazione secondo la logica dell’efficienza. In tal senso la possibilità di reincorporare l’economico nel sociale, cui sopra si è accennato, resta problematica fin tanto che noi resteremo all’interno di questo immaginario economico.
Assistiamo infatti ad una situazione paradossale: il ritorno del dono può essere rivendicato con una certa verosimiglianza dagli ultraliberisti. In effetti, smantellando lo Stato sociale, Margaret Thatcher, e Ronald Regan non hanno rinunciato a fare appello allo spirito di solidarietà dei loro concittadini per porre rimedio alle insufficienze del mercato, ciò che gli economisti chiamano Market Failure (fallacia economicista).
Certo, questa posizione non cessa di essere paradossale, poiché la regolazione attraverso il mercato si fonda sulla fede nella armonia naturale degli interessi e dunque sulla esaltazione dell’egoismo. Come giustificare l’altruismo che autorizza la ritirata dello Stato? D’altra parte i socialdemocratici devono affrontare un paradosso in qualche modo simmetrico: lo stato sociale si base sulla affermazione della necessaria solidarietà dei cittadini e si riallaccia ad una visione altruista dell’uomo. Solo che rendendo obbligatorio il finanziamento della previdenza sociale si impedisce allo spirito del dono di manifestarsi.
In realtà, se lo Stato sociale rivendica la giustizia e non la carità ciò implica certamente uno spirito del dono. Ed è infatti questo spirito del dono che serve da fondamento alla solidarietà e alla condivisione che presiedono alla previdenza sociale, agli assegni famigliari, alla indennità di disoccupazione, alle pensioni sociali ecc.
Tutte queste situazioni in effetti sono fondate su una relativa ma reale mutua condivisione delle risorse di fronte ai rischi, secondo la massima, "tutti per uno, uno per tutti".
Questo sistema costituisce il fondamento della moderna cittadinanza, equivalente dell’antica filia, l’amicizia aristotelica. La mondializzazione ultraliberale smantellando questo sistema, libera il dono tanto nella forma della carità quanto come base necessaria di una ricostituzione del legame sociale.
Il problema centrale è proprio una questione di "immaginario": mi sembra che ci sia una contraddizione insormontabile tra l’immaginario economico in cui siamo immersi e l’immaginario che implica l’espansione di una autentica economia plurale, se noi vogliamo che quest’ultima abbia una qualche consistenza.
Si tratta allora di pensare la compatibilità tra i tre poli della triade scambio-ridistribuzione-recipricità. Come l’etica della guerra economica ad oltranza può coesistere con l’etica della solidarietà, della gratuità e del dono che dovrebbe animare il mondo dell’associazionismo, con l’austerità della cittadinanza e l’uguaglianza fraterna implicate dallo Stato democratico? Come possa trovar posto alla Corte dei Grandi, fra i vari Bill Gates e soci?
Il gioco economico è fatto di darwinismo sociale accompagnato dalla morale: "occhio non vede, cuore non duole", e i cui ingredienti sono le offerte pubbliche di acquisto selvaggio, lo spionaggio industriale, l’evasione fiscale di massa, la corruzione attiva e passiva, mescolata ad un’etica protestante che sboccia nella buona governance imposta dai fondi di pensionamento.
Questo gioco in ogni caso si fa sulle spalle dei lavoratori salariati ed attraverso la strumentalizzazione di massa dei consumatori. L’etica della solidarietà e della cittadinanza egualitaria sono con assoluta evidenza condannati a restare la cattiva coscienza dell’etica degli affari. Non si tratta di fare le verginelle timide ma il confronto anche conflittuale non può esistere che nell’ambito di un rapporto di forza relativamente equilibrato non certo in una giungla senza principi. Come ci accingiamo a crescere i nostri figli e a fabbricare i futuri attori della società del domani? Quali di queste morali ci troveremo ad ascoltare e ad approvare con il plebiscito dell’Auditel alla TV? Il successo recente in Francia di Love Story e altri Reality Show non è di buon auspicio. La verità è che con il trionfo della società del mercato e l’apoteosi della guerra economica viene a mancare lo spazio per il dialogo, per un confronto pacifico tra queste etiche. Persino la ridistribuzione, non necessariamente altruista - e certamente conforme agli interessi a lungo termine delle multinazionali - finisce per essere svalutata, schernita e marginalizzata. I governi socialisti difensori naturali dei servizi pubblici, partecipano allegramente al fatto che questi stessi vengano fatti a pezzi e si rendono complici di un pensiero unico che tratta come un cane rognoso i sistemi di pensione sociale, pur conformi al buon senso e alla giustizia, per attuare invece fondi di pensionamento all’americana.
In queste condizioni un vero ri-assorbimento, come dice Arnoud Berthoud, dell’economico nel sociale non consisterebbe né in un bricolage teorico e pratico con l’aggiunta di uno o due altri settori, né in una buona volontà socialisteggiante. Il non economico, la reciprocità, la ridistribuzione, il non mercantile in un contesto di mercantizzazione totale del mondo rimangano totalmente sottomessi all’immaginario mercantile.
Un vecchio proverbio che a me piace molto dice che quando si ha un martello in testa si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini moderni si sono messi un martello economico nella testa: tutte le nostre preoccupazioni, tutte le nostre attività, tutti gli avvenimenti sono visti attraverso il prisma dell’economico. Non succedeva così per esempio nel Medio Evo, quando tutto era piuttosto immerso nel religioso - forse non era meglio ma era differente - né a maggior ragione presso i greci che tendevano a ridurre ogni cosa al politico filosofico e più ancora tra le popolazioni cosiddette primitive per le quali i rituali e la parentela costituiscono la prima preoccupazione. Finché il martello economico rimarrà nelle nostre teste, questi tentativi di riforma saranno un vano e spesso pericoloso agitarsi.
Come pensare che oggi possa bastare un Terzo settore per consentire alla società di dominare nuovamente l’economia anziché esserne dominata? Più che mai le miserie create, le crepe e le minacce che appaiono nel corpo sociale, rendono necessarie misure di difesa e di protezione della società per uscire veramente dalla Market Failure. Occorrerà seguire la diagnosi del filosofo Cornelius Castoriadis: abbiamo bisogno di una nuova creazione immaginaria di un’importanza che non ha pari nel passato. Una creazione che ponga al centro della vita umana significati diversi dall’espansione, della produzione e dal consumo. Che proponga obiettivi di vita diversi tali da essere riconosciuti dagli esseri umani come degni di sforzo. Questa è l’immensa difficoltà che ci troviamo a fronteggiare: dovremmo volere una società in cui i valori economici non siano più centrali o unici, dove l’economia sia messa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Una società in cui si rinunci dunque a questa corsa folle verso un consumo sempre crescente. Tutto ciò è necessario non soltanto per evitare la definitiva distruzione dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per liberarci dalla miseria psicologica e morale propria degli uomini contemporanei. Non si tratta dunque, e sarà la mia conclusione provvisoria, di bandire i mercati o di escluderli, ma di limitare il mercato lottando contro l’evidenza del suo spirito. E quindi in questo processo di liberazione delle mondialità dall’economicismo, (dis-economicizzazione delle mondialità) che un progetto di economia alternativa plurale e solidale può acquistare senso e consistenza e non essere soltanto un alibi, un’utopia, o, addirittura, un giochetto per ingenui. Non ci si ritroverà più allora di fronte ad un tentativo di bricolage di formule astratte (mercato, ridistribuzione, reciprocità), ma ad una pratica ben contestualizzata di rifondazione.

sabato 28 marzo 2009

La mistica del lavoro: Alain De Benoist


Questo di Alain De Benoist, (come del resto quelli dei post precedenti) è un articolo lungo e forse faticoso. Insieme agli altri articoli, va però a costituire una solida base teorica, un sostegno anche intellettuale al paradigma del dono, all'Economia della Felicità. Leggere quindi come sia stata inventata ed applicata la "mistica" dl lavoro sarà senz'altro istruttivo. L'ideologia del lavoro come lo conosciamo noi è qualcosa di molto recente, mai apparsa prima nella storia dell'umanità. Le conclusioni attuali e tragiche di questo articolo, saranno il complemento alla visione di Silvano Agosti,al suo "Discorso dello schiavo" ed alla speranza della Kirghisia.


Alain De Benoist - La storia dell'ideologia del lavoro

L'ideologia del lavoro sembra avere origine nella Bibbia, dove l'uomo è definito, sin dal momento della creazione, dall'azione che esercita sulla natura: «Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la terra, sottomettetela') (Gen., 1, 28). Dio ha collocato l'uomo nel giardino dell'Eden ut operatur, "perché lavori» (Gen., 2, 15). Questo brano precede il racconto del peccato originale; il risultato di quel peccato non è quindi il lavoro, come troppo spesso si dice, ma solamente la condizione più penosa in cui esso dovrà da quel momento in poi essere svolto.
Dopo il peccato, l'uomo si guadagnerà il pane “con il sudore della fronte”.

Con la missione assegnata all'uomo di “sottomettere” la terra si inaugura già il dispiegamento planetario e incondizionato dell'essenza della tecnica moderna, come punto d'arrivo di una metafisica che instaura tra l'uomo e la natura un rapporto puramente strumentale. L’uomo ha la vocazione al lavoro, e il lavoro ha la vocazione a trasformare il mondo; esso rappresenta pertanto una rottura con l'essere, un dominio su un mondo fatto oggetto della signoria umana. Come l'uomo è l'oggetto di Dio, così la terra diventa l'oggetto dell'uomo, che la trasforma assoggettandola alla ragione tecnica. Nel contempo, il lavoro assume un valore eminentemente morale. Dirà san Paolo: "Se qualcuno non vuole assolutamente lavorare, non mangi», frase originariamente enunciata sotto forma di constatazione ("chi non lavora non mangia») ma che ben presto diventa una formula prescrittiva: "Chi non lavora non ha il diritto di mangiare».

Questa visione del mondo, che oggi ci appare cosi familiare, è segnata da una rottura totale con la concezione prevalente nella quasi totalità delle società tradizionali, dove non solo la necessità non detta legge. Ma l'ambito di ciò che è specificamente umano si situa viceversa nel rifiuto di assoggettarsi al regno della necessità materiale. Marshall Sahlins, ad esempio, ha mostrato in maniera convincente che le società "primitive" sono società nelle quali non si lavora mai più di tre o quattro ore al giorno, perché i bisogni vengono volontariamente limitati e al "tempo libero", viene assegnata la priorità rispetto all'accumulazione dei beni.
Nell'Antichità europea, il lavoro viene disprezzato proprio perché è considerato il luogo per eccellenza dell'assoggettamento alla necessità. Questo disprezzo lo troviamo tanto nei greci e nei romani quanto nei traci, nei lidii, nei persiani e negli indiani.

L’idea più comune è che, essendo per definizione deperibile tutto ciò che l'economia produce, il lavoro, motore dell'economia, non è adatto a rappresentare quel che va oltre la semplice naturalità dell'esistenza umana. In Grecia, soprattutto, il lavoro è percepito come un'attività servile che, in quanto tale, è in antagonismo con la libertà, e quindi anche con la cittadinanza. "Un pastore ateniese", nota a questo proposito Alain Caillé, "è un cittadino, a differenza dei ricchi artigiani, non perché è un lavoratore, come penserebbero i moderni, ma al contrario perché è un ozioso, perché dispone di quel tempo libero (skholè) che è la sola prerogativa in grado di rendere gli uomini pienamente umano. "Non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano" scrive Aristotele.

Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della "comodità", rappresentata dall'esistenza di schiavi. Essa esprime in realtà un'idea molto più importante: l'idea che la libertà (come del resto anche l'eguaglianza) non può risiedere nella sfera della necessità, e che vi è autentica libertà solo nell'affrancamento da tale sfera, ovverosia nell'al di là dell'economico. Al limite, come spiega Hannah Arendt, lo schiavo non lavora perché è schiavo, ma è schiavo perché lavora. «Il lavoro era indegno del cittadino", aggiunge André Gorz, "non in quanto era riservato alle donne e agli schiavi; anzi, era riservato alle donne e agli schiavi perché "lavorare significava asservirsi alla necessità". E poteva accettare quell'asservimento soltanto chi, alla maniera degli schiavi, aveva preferito la vita alla libertà e dunque dato prova di spirito servile. L’uomo libero, invece, rifiuta di sottomettersi alla necessità; padroneggia il proprio corpo onde non essere schiavo dei suoi bisogni e, se lavora, lo fa solo per non dipendere da ciò che non controlla, cioè per assicurare o accrescere la propria indipendenza». Per questo motivo, «l'idea stessa di "lavorare" era inconcepibile in quel contesto: il "lavoro", votato alla servitù e alla reclusione nella domesticità, lungi dal conferire un'"identità sociale", definiva l'esistenza privata ed escludeva dall'ambito pubblico quelle e quelli che gli erano asserviti».

Il fatto che questa contrapposizione tra regime della necessità e ambito della libertà si sovrapponga, nell'ideale antico, alla contrapposizione tra sfera privata e sfera pubblica è rivelatore. Secondo Aristotele, l'economia ha a che vedere con l'ambito "familiare". Essa si definisce, in senso proprio, come un insieme di regole di amministrazione domestica (oikos-nomos) , che Aristotele distingue del resto nettamente dalla produzione di beni in vista di uno scambio mercantile, cioè dalla crematistica. ln quanto tale, essa si contrappone alla sfera pubblica, ambito della libertà, il cui godimento e la partecipazione alla quale presuppongono l'«oziosità». La libertà è una faccenda pubblica; non può essere ottenuta nel privato o attraverso di esso.

Non esiste d'altronde all'epoca nessuna parola generica per designare il lavoro. I termini più correntemente utilizzati dai greci (ponos, ergon, poiesis) testimoniano un apprezzamento qualitativamente differenziato delle attività umane, giudicate secondo la conformità alla natura o in base al valore d'uso e alla qualità del prodotto.
"Nel contesto della tecnica e dell'economia antica", sottolinea Jean-Pierre Vernant, "il lavoro appare solo [...] nel suo aspetto concreto. Ogni compito viene definito in funzione del prodotto che punta a fabbricare [...] Non si considera il lavoro nella prospettiva del produttore, come espressione di un unico sforzo umano creatore di valore sociale. Non troviamo quindi, nell'antica Grecia, una grande funzione umana, il lavoro, che copre tutti i mestieri, bensì una pluralità di mestieri diversi, ciascuno dei quali costituisce un tipo particolare di azione che produce la propria opera".

Lo stesso stato d'animo vige a Roma. A proposito del lavoro manuale, Seneca dice che è "privo d'onore e non potrebbe rivestire neppure la semplice apparenza dell'onestà". Cicerone aggiunge che "il salario è il prezzo di una servitù" che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in una fabbrica». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l'opus, l'attività creativa. «Lavorare» (laborare) ha spesso il significato di «soffrire»; laborare ex capite, "soffrire di mal di testa", Viceversa, la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente", bensì l'attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, "negozio")' Quanto alla parola moderna francese "travail", essa viene, come è noto, da tripalium, che in origine era uno strumento di tortura…

Sin dai primi secoli della nostra era, il cristianesimo si è sforzato di lottare contro il disprezzo del lavoro. Gesù e i suoi apostoli erano dei lavoratori manuali. In breve tempo non si conteranno più i santi patroni dei diversi mestieri. Ciononostante, per Secoli sopravviverà l’idea che l'uomo non è fondamentalmente fatto per lavorare, che il lavoro non è altro che una triste necessità e non qualcosa da nobilitare o lodare, e che talune attività sono incompatibili con la qualità di uomo libero. Per reagire a questa idea fortemente radicata, la borghesia, soprattutto a partire dal XVII secolo, moltiplicherà le critiche contro il carattere «improduttivo», e quindi «parassitario», del modo di vita aristocratico.

André Gorz è uno di coloro che hanno colto meglio in che misura ciò che noi oggi chiamiamo lavoro è, nella sua stessa generosità, un'invenzione della modernità. L’idea contemporanea del lavoro", scrive, «appare in effetti solo con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al XVIII secolo, il termine «lavoro" (Iaboul; Arbeit, travai) designava la pena dei servi e dei giornalieri che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito. Gli artigiani, invece, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non "lavoravano", "operavano", e nella loro "opera" potevano utilizzare i "lavoro" di uomini di fatica chiamati a svolgere i compiti grossolani, poco qualificati. Soltanto i giornalieri e i manovali erano pagati per il loro "lavoro"; gli artigiani facevano pagare la propria "opera" in base a un tariffario fissato da quei sindacati professionali che erano le corporazioni e le gilde, le quali proibivano severamente qualsiasi innovazione ed ogni forma di concorrenza. [...] La "produzione materiale" non era dunque, nell'insieme, retta dalla razionalità economica».

Per molto tempo infatti il lavoro, benché riabilitato, è rimasto in una certa misura al riparo da considerazioni puramente utilitarie o mercantili. Nel Medioevo, in particolare, il mestiere ha un valore di integrazione sociale. E innanzitutto un modo di vita, una maniera di stare al mondo, e, in quanto tale, rimane dipendente da un certo numero di atteggiamenti etici, che vanno al di là della sfera della sola materialità ed impregnano nel suo insieme una società nella quale si giustappongono e si incrociano modi di vita organica differenti. I mestieri hanno le proprie regole, le proprie tradizioni. Al loro esercizio sono associate abitudini festive e credenze popolari che contribuiscono a limitare gli effetti della sola ragione economica. Il lavoro speso nella costruzione delle cattedrali è tutto salvo che un lavoro che miri all'utilità, come ha rimarcato, in una pagina molto nota, Georges Bataille: «L’espressione dell'intimità nella chiesa [...] risponde al vano consumo del lavoro: sin dall'inizio la destinazione sottrae l'edificio all'utilità fisica, e questo primo movimento si esprime in una profusione di vani ornamenti. Perché la costruzione di una chiesa non è l'impiego vantaggioso del lavoro disponibile, ma il suo consumo, la distruzione della sua utilità. L’intimità è espressa in modo condizionato da una cosa: purché questa cosa sia in fondo il contrario di una cosa, il contrario di un prodotto, di una merce: un consumo e un sacrificio».

È a questa forma di lavoro che Péguy allude quando evoca la pietà dell'«opera ben fatta», il tempo in cui si cantava mentre si lavorava e si dava nel lavoro il meglio di sé perché in quel lavoro ne andava della realizzazione di se stessi: «Abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare [...] Lavorare era la gioia stessa, la radice profonda del loro essere [...] Esisteva un onore incredibile del lavoro [...] Bisognava che un bastone di sedia fosse ben fatto [...] Non doveva essere fatto bene per il salario o a causa del salario [...] per il padrone o per i conoscitori [...] Bisognava che fosse fatto bene in sé [...] E lo stesso principio delle cattedrali...». Péguy, tuttavia, respinge sia la concezione calvinista, in cui la coazione al lavoro trova la propria legittimità nell'ordine della fede (il lavoro come sottomissione necessaria all'esigenza di salvezza), sia la concezione borghese, che considera lavoro autentico solo quello che non procura alcun divertimento. Egli non fa del lavoro lo scopo supremo dell'esistenza. Pone al di sopra dei compiti necessari alla sussistenza le attività dello spirito che permettono alla personalità di fiorire. Sa che i valori etici e culturali sono superiori alla semplice produzione degli oggetti. Ed è il primo a convenire che il lavoro è radicalmente cambiato da quando è governato solamente dalle leggi economiche dell'offerta e della domanda, della produzione e del mercato.

Con la Riforma, e poi con l'emergere delle teorie liberali, il "valore-lavoro" diventa infatti nel contempo valore dominante e valore in sé. In Locke, ad esempio, la proprietà si fonda sul lavoro e non più sui bisogni, atteggiamento che già giustifica l'appropriazione illimitata (e che Louis Dumont giustamente definisce tipicamente moderna). Nel contempo, la giustizia viene fondata su un diritto di proprietà posto come assoluto, agli antipodi del pensiero tradizionale che rapporta la giustizia all'equità e a relazioni ordinate all'interno di un tutto. La proprietà risalirebbe allo «stato di natura» e sarebbe il frutto del lavoro individuale, cioè dell'appropriazione da parte dell'individuo di tutto ciò che egli sottrae alla natura e prende alla terra. E la nascita di quello che Macpherson chiama l'«individualismo Possessivo».
Il lavoro è non meno fondamentale in Adam Smith. L' introduzione de La ricchezza delle nazioni si apre su queste parole: «Il lavoro annuo di una nazione è il fondo primitivo che fornisce al suo consumo annuale tutte le cose necessarie e comode della vita; e queste cose sono sempre o il prodotto immediato del lavoro, o acquistate dalle altre nazioni assieme a quel prodotto)» Smith aggiunge immediatamente l'idea concomitante che la ricchezza prodotta dal lavoro (le "cose necessarie e comode della vita”) può essere accresciuta dal progresso costante dei metodi di rendimento. E sostiene inoltre che lo scambio fra le ricchezze in tal modo prodotte, scambio il cui unico motore è l'esclusiva ricerca dell'interesse egoistico, consente la diffusione ottimale di tutti i benefici risultanti dalla divisione del lavoro. Il valore si identifica quindi essenzialmente con il lavoro, che ne costituisce in un certo senso la sostanza e ne è l'unico metro di misura, ed è nello scambio mercantile che questo valore si cristallizza. «Il lavoro», scrive Adam Smith, «è la misura reale del valore scambiabile di ogni merce».

Per Smith, il giusto prezzo è dunque quello del mercato: la merce che viene scambiata sul mercato è venduta esattamente per ciò che vale («prezzo naturale»), e il suo valore espresso in denaro rimanda al lavoro che essa rappresenta: «Il lavoro misura il valore, non soltanto di quella parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita, e di quella che si risolve in profitto. E ancora: «Non è con l'oro o con l'argento, ma con il lavoro che tutte le ricchezze del mondo sono state acquistate originariamente; e il loro valore per coloro che le possiedono e che cercano di scambiarle con nuove produzioni è esattamente uguale alla quantità di lavoro che esse li mettono in condizione di acquistare o di ordinare". L’intera opera di Smith si fonda su questo legame fra lo scambio e il lavoro, in cui il primo ingloba il secondo nelle condizioni moderne dell'attività economica ma il secondo forma la pietra angolare dell'intero edificio.

L' uomo pertanto è così «naturalmente» commerciante che è «lavoratore»: «ln tal modo, ogni uomo vive di scambi e diventa una sorta di mercante, e la società stessa è propriamente una società commerciante».
Come scrive Louis Dumont, «insomma, ogni cosa è lavoro e il lavoro è ogni cosa, cosicché noi lavoriamo persino quando non lavoriamo e ci accontentiamo di scambiare».
In effetti, in Smith troviamo due definizioni del valore-lavoro. Nella prima, che è implicita, il valore consiste nella quantità di lavoro necessaria alla produzione di un bene. Nella seconda, che ne deriva ed è altresì la principale, il valore di un bene consiste nella quantità di lavoro che è possibile ottenere in cambio di quel bene (giacché lo scambio consente in un certo senso di "verificare" il valore-lavoro connesso alla sola produzione). In entrambi i casi, ci si trova di fronte ad un'affermazione (o ad un argomento di diritto naturale) priva di ogni valore empirico od operativo. La teoria si limita semplicemente a postulare che l'uomo crea il valore per il tramite del proprio lavoro, che lo fa padrone e sovrano trasformatore della natura. «Questa relazione naturale dell'uomo individuale con le cose», nota Louis Dumont, «si riflette in qualche modo nello scambio egoistico tra uomini che, pur essendo un succedaneo del lavoro, impone ad esso la propria legge e ne consente il progresso. Come nella proprietà di Locke, è il soggetto individuale ad essere esaltato, l'uomo egoista che scambia o lavora, che, nella pena, nell'interesse e nel profitto, lavora [...] al bene comune, alla ricchezza delle nazioni».

Adam Smith tuttavia devia quando, basandosi sulla teoria del valore-lavoro, si sforza di giustificare il sistema dei salari e il gioco del capitale. Egli afferma infatti che il lavoratore deve condividere con il datore di lavoro il prodotto del capitale. Questa affermazione sembra smentire la convinzione secondo cui il valore del prodotto si ricollega alla quantità di lavoro necessaria alla produzione, dal momento che tale quantità è stato solo il lavoratore a produrla. Consapevole della difficoltà, Smith scrive: «La quantità di lavoro comunemente spesa per acquistare o produrre una merce non è più dunque l'unica circostanza sulla quale si deve regolare la quantità di lavoro che quella merce potrà comunemente acquistare, ordinare od ottenere in scambio. E chiaro che sarà dovuta ancora una quantità addizionale per il profitto del capitale che ha anticipato i salari di tale lavoro e ne ha fornito i materiali». Questa «quantità addizionale» rimane però misteriosa. Smith tenta in effetti di assimilare il valore-lavoro inerente ad un prodotto al salario che il lavoratore riceve per quel prodotto, come se il valore del lavoro pagato dal salario fosse identico al valore reale creato da quel lavoro: “Quel che costituisce la ricompensa naturale o il salario del lavoro, è il prodotto del lavoro". Ma questa assimilazione è arbitraria, cosa che Marx non mancherà di rilevare. L’approccio di Smith trova il suo fondamento nell'idea che la diversità delle attività umane possa essere interamente ricondotta a un'unica sostanza, e che sia tale sostanza, nella fattispecie il lavoro, a permettere di trasformare l'eterogeneo in omogeneo, la qualità in quantità. Nel contempo, Smith afferma che ogni lavoro deve essere ('produttivo", cioè diretto verso la produzione di merci utili il cui consumo consentirà a sua volta di produrre nuove cose consumabili. Ne consegue che l'attività non «produttiva» è un non-senso rispetto alla vita delle società.

Questa idea di un lavoro che sarebbe alla base dell'esistenza umana la si ritrova in Ricardo, per il quale "il valore di una merce dipende della quantità relativa di lavoro necessaria alla sua produzione”. I successori di Smith si divideranno in seguito sull'importanza relativa da attribuire rispettivamente al lavoro e allo scambio.
La teoria neoclassica, particolarmente in Walras, cercherà di assimilare valore di scambio e valore d'uso spiegando il primo attraverso la limitazione di una quantità utile, cioè attraverso la rarità. I’idea che il valore debba essere indicizzato esclusivamente sull'utilità non è infatti sostenibile: l'acqua è più utile del diamante ma infinitamente meno costosa; il piano del prezzo e quello dell'utilità sono irriducibili l'uno all'altro. Gli economisti liberali si sforzeranno quindi di prendere contemporaneamente in considerazione l'utilità e la rarità, e i marginalisti svilupperanno un punto di vista che consisterà nel valutare non più la quantità globale di beni, bensì il valore «marginale», assunto dall'ultimo di essi, ma "senza riuscire a operare la sintesi utilità-rarità in "una spiegazione coerente”. Questa teoria finisce infatti con il rendere insolubile il problema della trasformazione del valore in prezzo di produzione.

Il modo in cui ai nostri giorni la parola "lavoro" viene indistintamente applicata a qualunque forma di attività o di occupazione regolare, in diretta contrapposizione con l'ideale ereditato dall'Antichità, riflette piuttosto bene le teorie di cui abbiamo or ora sinteticamente accennato. Operai, dirigenti, artisti, ricercatori, intellettuali, creatori: ormai tutti "lavorano". Anche i contadini si sono trasformati in "produttori agricoli, il che dimostra che i loro compiti quotidiani non definiscono più un modo di vita incomparabile rispetto a tutti gli altri. Nondimeno, questo onnipresente lavoro esige di essere colto e definito con precisione. "Il "lavoro", nel senso contemporaneo", scrive André Gorz, "non si confonde né con i bisogni, ripetuti giorno dopo giorno, che sono indispensabili al mantenimento e alla riproduzione della vita di ciascuno; né con la fatica, per quanto impegnativa possa essere, che un individuo fa per realizzare un compito di cui lui stesso o i suoi sono i destinatari e i beneficiari; né con quel che noi decidiamo di fare di testa nostra, senza tener conto del tempo e della fatica, per uno scopo che ha importanza soltanto ai nostri occhi e che nessuno potrebbe raggiungere al posto nostro. Se ci capita di parlare di "lavoro" a proposito di queste attività del "lavoro domestico", del "lavoro artistico, del lavoro di autoproduzione, lo facciamo assegnando all'espressione un significato fondamentalmente diverso da quello che ha posto il lavoro alla base della propria esistenza, strumento cardinale e nel contempo obiettivo supremo... La caratteristica essenziale di quel tipo di lavoro quello che noi "abbiamo", "cerchiamo", "offriamo" consiste infatti nell'essere un'attività nella sfera pubblica, richiesta, definita, riconosciuta utile da altri e, a questo titolo, da essi remunerata. Grazie al lavoro remunerato (e più in particolare attraverso il lavoro salariato) apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un'esistenza e un'identità sociali (vale a dire una "professione»), siamo inseriti in una rete di relazioni e di scambi nella quale ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferire dei diritti su di loro in cambio dei nostri doveri verso di loro. La società industriale viene intesa come "una società di lavoratori" e, a questo titolo, si distingue da tutte quelle che l'hanno preceduta, perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è anche per quelle e quelli che ne cercano, vi si preparano o ne mancano il fattore di gran lunga più importante di socializzazione».

Perciò, prosegue André Gorz, "la razionalizzazione economica del lavoro non è consistita semplicemente nel rendere più metodiche e meglio adattate allo scopo delle attività produttive preesistenti. Fu una rivoluzione, una sovversione del modo di vita, dei valori, dei rapporti sociali e con la natura, l'invenzione nel senso pieno del termine di qualcosa che non era ancora mai esistito. L’attività produttiva veniva privata del suo senso, delle sue motivazioni e del suo oggetto per diventare il semplice mezzo per guadagnarsi un salario. Smetteva di far parte della vita per diventare il mezzo per "guadagnarsi da vivere". Il tempo di lavoro e il tempo di vivere venivano staccati; il lavoro, i suoi strumenti, i suoi prodotti acquistavano una realtà separata da quella del lavoratore e dipendevano da decisioni estranee. La "soddisfazione di operare" in comune e il piacere di "fare" venivano soppressi a vantaggio esclusivo delle soddisfazioni che il denaro può acquistare [...] La razionalizzazione economica del lavoro avrà pertanto ragione dell'antica idea di libertà e di autonomia esistenziale. Essa dà vita a un individuo che, alienato nel lavoro, lo sarà anche, per forza, nei consumi ed, infine, nei bisogni".

Da alaindebenoist.com

Economia del dono: Il dono come rapporto


Marco Deriu sottolinea in questo suo articolo come nella nostra società l’idea di benessere collettivo sia diventata un’idea sempre più economica e ci invita invece a riscoprire e a pensare al dono come creatore di legame sociale.


Marco Deriu Il cerchio del dono

L’antropologo Louis Dumont ha descritto la nascita della società di mercato come una rivoluzione di valori perché a un certo punto alcuni economisti hanno iniziato a dire che per quello che riguardava la ricchezza economica non valevano più i valori, il senso di solidarietà sociale, l’etica che in qualche modo faceva parte della società, ma che valevano i principi individualisti dell’utilità e del profitto.
Senza che ce ne rendessimo conto, nella nostra società pian piano l’idea di benessere collettivo, sociale, è diventata un’idea sempre più economica. Marcel Mauss, antropologo e sociologo dei primi del novecento, ha scritto un bellissimo libro “Saggio sul dono”, in cui mette in luce che l’invenzione dell’uomo come uomo economico è in realtà una cosa molto recente. Mauss ci racconta di alcune culture da lui studiate che sono organizzate socialmente sulla cultura del dono. Mauss sintetizza il funzionamento di un’economia del dono con tre obblighi: dare, ricevere, restituire.
Queste tre leggi ci dicono che si crea in quel modo un circolo, perché questo dono è come un filo che tesse una relazione tra persone diverse, anche tra persone che non si conoscono. Perché è qualcosa che obbliga nel tempo, che quindi costruisce una relazione nel tempo, ci rende costantemente e in maniera irrinunciabile dipendenti gli uni dagli altri. In tutte le società, dice Mauss, la natura peculiare del dono è di obbligare nel tempo. Il dono è come se creasse una situazione di indebitamento reciproco. Si crea un legame, un senso di solidarietà e alla fine ognuno sa che riceve più di quello che ha dato.
Jacques Godbout, che ha scritto diversi libri sul dono, dice che il dono è ogni prestazione di beni e servizi che viene fatta senza garanzia di avere una restituzione in cambio. Certo c’è l’idea che prima o poi vi sarà restituita, ma non è scontato, è sempre comunque un’offerta. Ma la cosa su cui insistono gli antropologi è che il dono va pensato non come un oggetto che si scambia, ma come un rapporto, come qualcosa che crea legame sociale.
Per noi occidentali il dono verso gli altri paesi è semplicemente il trasferimento di soldi, di risorse o di beni. Noi concepiamo il dono soltanto come dare e ci dimentichiamo degli altri due aspetti, cioè del ricevere e del restituire, è come se interrompessimo quel cerchio e quel cerchio è proprio quello che crea la relazione. Essendo incapaci di ricevere entriamo in relazione con individui che definiamo poveri, cioè persone che possono solo ricevere.

Decrescita felice: Maurizio Pallante,per un mondo di beni e non di merci


Maurizio Pallante, il più noto esponente del Movimento per la Decrescita Felice in Italia, accenna sul finire di questo interessante articolo anche alla diffrenza far baratto, dono e regalo consumistico...



Per un mondo di beni e non di merci
di Maurizio Pallante

Sostenere la necessità di una decrescita economica e produttiva, descriverne i vantaggi in termini di felicità individuale, di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque e serene tra gli individui e tra i popoli, è un passaggio obbligato nella costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili problemi che il sistema economico industriale, fondato sulla crescita illimitata della produzione di merci, pone all'umanità e a tutte le specie viventi. Ma è come voler parlare a voce in un ambiente dove un potente sistema d i amplificazione sostiene contemporaneamente il concetto opposto. Non si viene ascoltati non solo perché si sostengono posizioni così contro corrente da essere respinte a priori dai più, ma anche perché non si riesce nemmeno a far udire la propria voce. […]
Ciò nonostante occorre ribadire in tutte le sedi i rapporti di causa-effetto tra la crescita del Pil e l'esaurimento di risorse vitali, l'incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale. Ma l'analisi e la denuncia non bastano. Occorre contestualmente effettuare nella propria vita scelte che comportano decrementi, anche infinitesimali, del Pil.
Innanzitutto perché se si è convinti che la decrescita sia un elemento indispensabile per una vita più felice sarebbe sciocco non cominciare a praticarla subito. In secondo luogo perché se le riflessioni sulla necessità della decrescita si sviluppano da una pratica concreta e sperimentata non sono soltanto speculazioni teoriche e diventano più credibili. Infine perché i vantaggi derivanti dalla loro pratica non si limitano all'ambito individuale, alla costruzione di una nicchia in cui rifugiarsi da un mondo che va in direzione opposta e difendersi dalle sofferenze che genera, ma acquistano il valore di una proposta politica. Nella ossessiva ripetitività e passività dei comportamenti consumisti massificati acquistano visibilità e luminosità, manifestano i loro vantaggi e, di conseguenza, possono suscitare ripensamenti: "Se lo stanno facendo alcuni, per quale motivo non posso farlo anche io?".
Come si può praticare la decrescita nelle proprie scelte di vita?
Innanzitutto chiarendo a se stessi cosa è e come si realizza la crescita del Pil.
A differenza di quanto comunemente si crede, la crescita del Pil non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico, ma la crescita delle merci scambiate con denaro. Non sempre le merci sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa – qualcosa che offre vantaggi – che invece non pertiene al concetto di merce. Se si fanno le code in automobile aumenta il consumo della merce carburante, quindi si accresce il Pil, ma si ha uno svantaggio, una disutilità. Viceversa, non necessariamente i beni sono merci, perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o per donarla. I prodotti del proprio orto e del proprio frutteto autoconsumati non sono merci e, pertanto, non fanno crescere il Pil, ma sono qualitativamente superiori agli ortaggi e alla frutta prodotta industrialmente e comprata al supermercato. La cura dei propri figli o l'assistenza dei propri vecchi fatta con amore è qualitativamente molto superiore alla cura che può prestare una persona pagata per farlo. Ma questa attività prestata in cambio di denaro fa crescere il Pil, l'altra, donata per amore, no.
Fare scelte esistenziali nell'ottica della decrescita significa quindi ridurre la quantità delle merci nella propria vita. A tal fine si possono percorrere due strade:
1. ridurre l'uso di merci che comportano utilità decrescenti e disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale, che causano ingiustizie sociali;
2. sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con beni.
La prima è la strada della sobrietà. La seconda è la strada dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili, basati sul dono e la reciprocità.
Non consumare merci
La sobrietà non è soltanto una virtù di cui il sistema economico e produttivo basato sulla crescita del Pil ha voluto cancellare accuratamente ogni traccia perché non se ne serbasse nemmeno la memoria nel giro di una generazione, ma è, soprattutto una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero.
Chi lavora cinque mesi all'anno per acquistare e mantenere un'automobile che gli serve ad incolonnarsi ogni giorno lavorativo due volte al giorno per ore sulle tangenziali nel tragitto casa-lavoro, e ogni giorno festivo […] nel tragitto casa-località di villeggiatura, è un consumista stupido, che si costringe a vivere una vita insopportabile e ben più infelice di una persona che lavora di meno e guadagna di meno, ma proprio per questo non ha bisogno di soldi da spendere in automobili, benzina, auto strade, compensazioni illusorie nelle località di vacanza dello stress accumulato nella settimana lavorativa. […]
Autoproduci i beni
La sobrietà comporta una riduzione della crescita del Pil attraverso una riduzione del consumo di merci, ma non consente una emancipazione dalla dipendenza assoluta nei loro confronti. E la sempre maggiore dipendenza dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore incapacità di autoprodurre beni. Per aver bisogno di comprare tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare un consumista senza alternative. La condizione di non saper produrre nessun bene, o quasi, nei paesi industrializzati è ormai generalizzata. Oggettivamente costituisce un enorme depauperamento culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione dell'uomo dai limiti della natura. […]
Nell'arco di una generazione alcuni beni di uso comune, come lo yogurt, il pane, la passata di pomodoro, le marmellate, le verdure sottolio e sottaceto, non si sono più fatti in casa e sono stati sostituiti da prodotti comprati al supermercato. L'autoproduzione di frutta e verdura è stata sostituita con prodotti agroalimentari carichi di veleni e senza sapore. Un processo disastroso in cui si sommano perdita di qualità e perdita di conoscenze, ma che è stato considerato un progresso perché ha comportato una crescita quantitativa della produzione di merci e del Pil . […]
Economia del dono
L'autoproduzione di beni e servizi può essere potenziata da scambi non mercantili fondati sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono anche a rafforzare i legami sociali. Il dono e la reciprocità […] non devono essere confusi con i regali acquistati e donati in un numero di circostanze fittizie crescenti, create appositamente per potenziare il consumismo, né possono essere semplicemente ridotti al baratto (scambio di prodotti senza l'intermediazione del denaro), ma consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di tempo, di professionalità, di conoscenze, di disponibilità umana. […]
Maggiore è l'incidenza degli scambi fondati sul dono e la reciprocità, minori sono gli scambi mercantili.
[…]
Può mettersi in moto un processo moltiplicatore con effetti significativi sulla decrescita del Pil e, forse, anche sulla felicità individuale di molte persone. Non è forse questo il significato più profondo della politica?

Economia del dono: Genevieve Vaughan


Genevieve Vaughan è forse la più importante teorica del paradigma del dono. La sua visione, che identifica questo paradigma con il modo di essere della donna, non è sempre di facile comprensione, ma offre senz'altro degli ottimi spunti e questa bellissima immagine: "Noi abbiamo bisogno di cura e gentilezza. Quando troviamo che l'85 per cento di carcerati sono stati vittime di abusi da bambini, dobbiamo capire che la vera questione non e' la giustizia"



L'Economia del dono
Di Genevieve Vaughan

Oggi nel mondo coesistono due paradigmi economici di base, logicamente contraddittori ma anche complementari. Uno è visibile, l'altro invisibile; uno fortemente valutato, l'altro sottovalutato. L'uno è connesso agli uomini, l'altro alle donne. Quello che dobbiamo fare è dare valore a quello connesso alle donne per causare uno spostamento fondamentale dei valori con cui gestiamo le nostre vite e le nostre politiche.

Il mio primo approccio all'idea del dono, come principio economico di base e come principio di vita, è stato quando lavoravo sul linguaggio e la comunicazione. Più tardi, come femminista, ho capito che il mio lavoro domestico gratuito e il mio lavoro di madre nel crescere i figli era in effetti un dono, e che le donne di tutto il mondo lo praticavano.

L'attuale sistema economico, che dicono sia naturale e troppo diffuso per poterlo cambiare, si basa su una semplice operazione a cui gli individui partecipano a più livelli e in momenti diversi. Questa operazione è lo scambio, che si può descrivere come un dare per ricevere. La motivazione alla base dello scambio è orientata all'egoismo, poiché ciò che è dato ritorna sotto altra forma al donatore per soddisfare i suoi bisogni: soddisfare i bisogni di un'altra/o è un mezzo per soddisfare il proprio bisogno. Lo scambio impone l'identificazione delle cose scambiate, come pure la loro misurazione e la dichiarazione della loro equivalenza fino a soddisfare gli scambiatori nella misura in cui nessuno dà più di ciò che riceve. Quindi lo scambio richiede più visibilità; attrae attenzione, sebbene sia operato tanto spesso che la sua visibilità è diventata luogo comune. Il denaro entra nello scambio a prendere il posto dei prodotti e ne riflette la loro valutazione quantitativa.

Quella che sembrerebbe una semplice interazione umana, lo scambio, dato che viene operata così spesso, diventa una sorta di archetipo o calamita per altre interazioni umane, rendendo se stesso – e qualsiasi cosa gli assomigli – apparentemente normale, mentre tutto il resto è follia. Per esempio, si parla di scambio di amore, conversazioni, sguardi, favori, idee.

Ma esiste anche un diverso tipo di similitudine dello scambio alla definizione linguistica: la definizione opera una mediazione definendo se un concetto appartiene o meno ad una determinata categoria, così come mediante la monetizzazione di una determinata attività se ne definisce l'appartenenza alla categoria lavoro o meno. La stessa visibilità dello scambio è auto-affermativa, mentre altri tipi di interazione sono rese invisibili o inferiori per contrasto o per descrizione negativa. Ciò che è invisibile sembra essere senza valore, mentre ciò che è visibile viene identificato con lo scambio che verte intorno ad un certo tipo di valore quantitativo. Inoltre, dato che viene asserita un'equivalenza tra ciò che diamo e ciò che riceviamo, sembra che chiunque possiede di più abbia prodotto tanto o dato tanto ed è, quindi, in qualche modo, più di quelli che possiedono meno. Lo scambio mette al primo posto l'io e gli permette di crescere e svilupparsi in modi che enfatizzano comportamenti competitivi ("prima io") e pattern gerarchici. Questo io non è una parte intrinseca dell'essere umano ma un prodotto sociale che deriva dal tipo di interazioni umane a cui è connesso.

Il paradigma alternativo, che è nascosto – o quantomeno mal identificato – è quello della cura per l'altro (nurturing), ed è orientato verso l'altro (other-oriented). Esso continua ad esistere perché si basa sulla natura degli infanti che sono dipendenti ed incapaci di ripagare il donatore. Se i loro bisogni non vengono soddisfatti unilateralmente essi soffriranno e moriranno. La società ha allocato il ruolo di curatrici alle donne poiché noi gli diamo vita e abbiamo il latte per nutrirli.

Poiché una grande percentuale di donne si prende cura dei bambini piccoli, esse vengono dirette ad avere un'esperienza che va al di là dello scambio. Ciò stabilisce un orientamento all'interesse verso l'altra persona. I premi e le punizioni coinvolti in questa relazione hanno a che fare con il benessere dell'altro. La nostra soddisfazione ci viene dalla loro crescita e felicità, non solo dalla nostra. Nel migliore dei casi, ciò non comporta nemmeno il nostro impoverimento o esaurimento. Dove c'è abbastanza noi possiamo nutrire gli altri abbondantemente. Il problema è che di solito siamo in presenza di scarsità di risorse, la quale viene creata artificialmente dal sistema per poter mantenere il controllo, così che l'orientamento verso l'altro diventa difficile e ci esaurisce. Di fatto lo scambio impone uno stato di scarsità, perché se i bisogni sono abbondantemente soddisfatti nessuno è costretto a rinunciare a qualcosa per poter ricevere ciò di cui ha bisogno.

Si dice che attualmente la terra produca abbastanza risorse per nutrire tutti abbondantemente. Tuttavia ciò non può essere fatto sulla base del paradigma dello scambio. Ma è vero che neanche il paradigma dello scambio e l'egoismo che esso sostiene possono continuare in una situazione di abbondanza e libero dono. Ecco perché è stata creata la scarsità a livello mondiale con le spese per gli armamenti ed altro spreco di risorse: 17 miliardi di dollari darebbero da mangiare all'intera popolazione della terra per un anno, mentre nel mondo sprechiamo questa somma ogni settimana per spese militari, creando così la scarsità necessaria perché possa sopravvivere e convalidarsi il paradigma dello scambio.

Ma se noi identifichiamo il paradigma del dono con il modo di essere della donna, vediamo che esso è già diffuso, poiché le donne costituiscono la maggioranza della popolazione. Anche molti uomini in qualche misura praticano il paradigma del dono. Nelle economie non capitalistiche, come le economie indigene, si trovano spesso importanti pratiche di dono e varie ed importanti leadership femminili.

Per esempio, io credo che molti dei conflitti tra donne e uomini che sembrano differenze personali, in realtà siano differenze nel paradigma che noi stiamo usando come base del nostro comportamento. Le donne criticano il grande ego degli uomini e gli uomini dicono alle donne che sono irrealistiche e troppo generose. Ognuno cerca di convincere l'altro a seguire i propri valori. Di recente molte donne hanno cominciato a seguire il paradigma dello scambio, cosa che ha il vantaggio immediato di liberarle dalla bieca servitù economica – ed anche il vantaggio psicologico che è dato dalla monetizzazione che definisce la loro come un'attività di valore. Pero' la servitu stessa e' causata dal paradigma dello scambio.

Quando le persone passano da un paradigma all'altro c'è probabilmente una rimanenza del paradigma precedente, così che le donne che intraprendono lo scambio spesso mantengono le caratteristiche di cura mentre gli uomini che cominciano a praticare il dono rimangono più orientati all'egoismo. Questo lo ritrovo nel caso delle religioni, nelle quali è l'uomo a legiferare sull'orientamento verso l'altro, spesso seguendo il paradigma dello scambio, ed escludendo e squalificando le donne. Infatti, essi fanno apparire l'altruismo così santo che diventa impraticabile per i più ( mentre ignorano che esso è spesso la norma per le donne). È come la sindrome della madonna-puttana in cui la donna è sopravvalutata o sottovalutata, adorata o disprezzata. L'altruismo viene fatto sembrare fuori dalla nostra portata, e spesso sembra che comporti un sacrificio di sé (per via della scarsità che induce l'economia dello scambio), oppure viene visto come uno spreco; le religioni patriarcali fanno la carità in cambio dell'anima.

Il dono che viene dal modello dello scambio non funziona, come si può vedere al livello degli aiuti tra nazioni. Ci sono obblighi imposti dalle nazioni donatrici che depauperizzano le nazioni riceventi. Un altro aspetto del conflitto tra paradigmi è che il lavoro domestico o altro lavoro non-monetizzato di donne viene visto come inferiore o come non-lavoro; valorizzarlo sovverte il paradigma dello scambio. Forse il lavoro delle donne viene pagato di meno per mantenerle in uno stato di dono depauperato. Ciò che occorre fare non è di pagare di più il lavoro alle donne, ma di cambiare totalmente i valori, con la consequente squalifica della monetizzazione e dello scambio.

Ma in che modo un paradigma non-competitivo e di cura può competere con un paradigma competitivo? Esso è sempre svantaggiato perché la competizione non è un suo valore né la sua motivazione. Tuttavia è difficile non competere senza perdere, convalidando così l'istanza dell'altro. Un altro grande problema è che se la pratica di soddisfare un bisogno è gratis, non si dovrebbe ricorrere ad un suo riconoscimento. Ma proprio non richiedendone riconoscenza, le stesse donne rimangono inconsapevoli del fatto che le caratteristiche delle loro azioni e dei loro valori appartengono ad un paradigma.
È chiaro che il paradigma orientato all'ego è pernicioso. Il suo risultato è il potere dei pochi ed il depauperamento, l'esaurimento, la morte e l'invisibilità dei più. Dato che l'ego è un prodotto sociale, in qualche modo artificiale, esso deve essere continuamente ricreato e confermato. Ciò può essere fatto anche attraverso la violenza contro l'altro, inclusa la violenza sessuale. Chiunque sia nella posizione dell'altro viene ignorato, negato, escluso e degradato per confermare la superiorità e l'identità degli ego dominanti. Vorrei evitare qualsiasi discorso morale su questo punto (infatti, io vedo il senso di colpa come scambio interiorizzato, di chi si prepara a ripagare per lo sbaglio commesso) e vedere semplicemente i problemi come conseguenze logiche e psicologiche dei paradigmi. La vendetta e la giustizia impongono una resa dei conti. Ma noi abbiamo bisogno di cura e gentilezza. Quando troviamo che l'85 per cento di carcerati sono stati vittime di abusi da bambini, dobbiamo capire che la vera questione non e' la giustizia. Come la carità, anche la giustizia rende umano lo scambio solo abbastanza da non farlo cambiare. Abbiamo bisogno di un mondo basato sul dare e a favore del dono non della retribuzione.

Economia del dono: le esperienze italiane del dono e del baratto



Nel seguente articolo di Monica Di Bari, vengono presentate alcune esperienze italiane che vanno nella direzione di una nuova economia. Interessante anche il riferimento alla rete informale di solidarietà dell’Africa Sub Sahariana.


Barattare, donare, riciclare
di Monica Di Bari

Donare: dare ad altri spontaneamente e senza compenso.
Il dono non è sterile elemosina o un regalo studiato per ricevere in cambio una contropartita diretta. Donare significa far fronte all’esigenza di un singolo che è comunque parte di un gruppo, nella consapevolezza che prima o poi un’esigenza simile toccherà al donatore stesso.
Ogni seconda domenica del mese nella località di Ozzano dell’Emilia, alle porte di Bologna, è possibile barattare, donare e riciclare. Si tratta di un mercatino del dono e del baratto, un’iniziativa nata dalla collaborazione tra la Cooperativa Dulcamara e l’Associazione Amici della Terra di Ozzano. Negli ultimi mesi, in molte città italiane sono state proposte esperienze simili: luoghi in cui effettuare scambi non monetari hanno aperto le porte alla cittadinanza. Un esempio è l'iniziativa del baratto svoltasi a Roma il 21 aprile e promossa da Reti di Pace: un mercato in cui, senza l'ausilio della moneta, sono stati scambiati CD musicali, libri, abiti e altri oggetti.
Dal Nord al Sud della penisola troviamo non solo spazi sociali concreti, ma anche sistemi di scambio non monetari, tra i quali il più diffuso è la Banca del Tempo.
Nella società dei consumi, dove la grande distribuzione organizzata assume un ruolo sempre più totalizzante, un bisogno consapevole e diffuso è quello di riscoprire gli spazi di socialità, dove lo scambio dei beni sia alla base della relazione umana.
Barattare è un primo passo: storicamente, scambiare o barattare due oggetti presuppone un intento commerciale equo per entrambe le parti; ma non basta: donare è un’azione dal significato sociale e antropologico ancora più complesso.
Non si può parlare di dono senza far riferimento al celebre Essai sur le don di Marcel Mauss: l’antropologo individua, alla base del dono e della comunicazione tra singoli e gruppi, il principio di reciprocità, strutturato nel concetto tripartito del dare, ricevere e ricambiare. Il dono non è sterile elemosina o un regalo studiato per ricevere in cambio una contropartita diretta; donare significa far fronte a un’esigenza di un singolo che è comunque parte di un gruppo, nella consapevolezza che prima o poi un’esigenza simile toccherà al donatore stesso; quest’ultimo, a sua volta, può contare sull’appoggio dell’intera comunità. Reciprocità può voler dire che chi ha dato non ottiene necessariamente una restituzione dal suo stesso beneficiario, ma dalla comunità stessa o dal sistema; d’altro canto colui che riceve è chiamato a restituire anche a un terzo, estraneo allo scambio originario.

La rete informale di solidarietà nell’Africa Sub Sahariana
Nell’Africa sub sahariana la reciprocità del dono è regola sociale e garanzia di un singolo in quanto membro di una comunità. Nel saggio L’Altra Africa, tra dono e mercato Serge Latouche distingue la povertà occidentale dalla sfortuna africana: in Africa il concetto di povertà implica quello di solitudine e l’isolamento dalla comunità comporta l’esclusione dagli scambi; nelle principali lingue africane le parole che designano il concetto di “povero” sottendono il significato di “orfano”. Un orfano, senza uno o entrambi i genitori, non può fare affidamento sulla rete di solidarietà della famiglia allargata, determinata in base al vincolo di parentela.
La capacità di costruire una rete di persone sulle quali poter contare è determinante per la sopravvivenza del singolo e della comunità; in base a questo obiettivo la capacità di memorizzare l’identità delle persone è stupefacente. Ciascuno deve conoscere ogni membro della rete, che può contare centinaia di persone: nome, condizione, storia individuale e posizione familiare determinano la conoscenza e gli scambi come relazioni umane.

Il dono, il baratto e la solidarietà nella civiltà contadina
Anche nelle comunità contadine dei nostri nonni ritroviamo il principio della reciprocità: ancora oggi nei piccoli contesti rurali i beni prodotti, se in eccesso, sono scambiati attraverso il dono reciproco. Le reti di scambio non monetario hanno sempre fatto parte della civiltà contadina: frutta, verdura, uova venivano donati a un membro della comunità senza aspettarsi una contropartita diretta. Il beneficiario a sua volta, contando su una produzione abbondante, ne donava una parte all’interno della comunità. Anche il baratto era alla base dell’organizzazione economica: in questo caso due individui potevano scambiare qualità diverse di semi, di vitigni e razze animali. I nuclei familiari godevano di una dimensione allargata che garantiva, in caso di necessità, l’assistenza agli anziani e la cura dei bambini. Maurizio Pallante ne La Decrescita Felice sottolinea come in questi contesti la dinamica del dono e contro-dono di tempo, capacità professionali, disponibilità umana, attenzione e solidarietà fosse alla base dei legami sociali. La stessa parola comunità è composta dalla preposizione cum che significa ‘con’ e indica un legame e dal nome munus che significa ‘dono’.
Recuperare, nella vita quotidiana, il senso del dono e della solidarietà tradizionale significa riappropriarsi dei valori e delle risorse realmente necessari alla comunità; è la base per ripensare un altro tipo di economia in cui lo scambio monetario e non monetario, il baratto e il dono, possano ridisegnare le reti sociali della solidarietà umana. Questo percorso, astratto in apparenza, parte dalla coscienza individuale dei singoli e trova possibilità di confronto nelle esperienze collettive: nei mercati per il baratto o il dono e nelle reti per gli scambi non monetari.

Economia del dono: Alain Caillé




Il sociologo francese Alain Caillé ripropone in questa intervista la questione del «dono», la critica all'homo oeconomicus, all'utilitarismo esasperato, alla visioni degli esseri umani come "animali interessati"... E ribadisce un concetto chiave: il dono è un gesto decisivo per lo sviluppo della società umana.



Contro la logica dello sfrenato utilitarismo che oggi sembra trionfare in molti campi prende forma una forte opposizione da parte della filosofia e dell’antropologia.
Ad alzare il vessillo della rivolta è stato, nel 1992, il sociologo francese Alain Caillé con il suo Lo spirito del dono – scritto a quattro mani con il collega canadese Jacques T. Godbout – un libro tradotto in cinque lingue che gli ha assicurato fama internazionale.

Ma Caillé aveva già dato fuoco alla santabarbara con la "Critica della ragione utilitaristica" del 1989, che assestava un primo colpo all’assioma dell’egoismo, secondo il quale in ogni azione e relazione sociale non si può che mirare al soddisfacimento del proprio interesse. Ora, in un’epoca ancora dominata dal consumismo, il messaggio di Alain Caillé si rivolge ai sudditi dell’impero neoliberistico: «Quanta parte delle attività dell’uomo, sia personali che sociali, deve essere impiegata per soddisfare il puro e semplice utilitarismo, e quanta invece dovrebbe essere dedicata a produrre significati, pensieri, a dare un senso alla vita, cioè al simbolico, al rituale, al politico, insomma al non utilitario?».

L’individuo obbedisce automaticamente al sempre più pervasivo modello dell’homo oeconomicus, imposto da certa pubblicità: massimizzare utilità e piacere, respingere senza indugio non solo ciò che fa soffrire ma anche, e soprattutto, ciò che non è utile. Eppure – obietta Caillé – uomini e donne non sono venuti sulla terra per agire da «animali interessati», che desiderano soltanto avere sempre più cose; anche se non lo sanno, l’oggetto principale della loro brama non è comunque la ricchezza quanto «l’essere riconosciuti».

Alla 14° sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, apertasi ieri in Vaticano, la nuova filosofia e sociologia, incardinata sul paradigma del dono e dell’altruismo, è stata illustrata dai suoi massimi rappresentanti: Alain Caillé, professore all’Università di Parigi Nanterre e Jacques T. Godbout, professore emerito al National Institut of Scientific Research dell’università di Montreal.


Intervista:

Professor Caillé, in un mondo soggiogato dall’etica dell’utilitarismo, la rivendicazione di una nuova economia, fondata sul dono e sull’altruismo, non sembra velleitaria?
«La gente crede che il dono e la generosità siano inutili fronzoli, sentimenti polverosi gettati in soffitta. Questa idea viene fatta valere con un bombardamento quotidiano dal modello economico dominante, secondo il quale non solo il mercato e gli scambi monetari ma anche l’apprendimento, il matrimonio, la fede religiosa, l’amore e l’odio, la giustizia e il delitto, sono regolati dalla logica egoistica. E invece il dono ha un ruolo oggi come lo aveva nel passato delle società umane. La grande scoperta è merito dell’antropologo Marcel Mauss, nipote ed erede intellettuale di Emile Durkheim, uno dei fondatori della sociologia. Nel 1923-1924, Mauss pubblica i risultati della sua indagine sulla pratica del dono cerimoniale. Però lui non si riferiva soltanto alle società arcaiche e primitive. La pratica di dare, prendere e ricambiare, cioè il principio della reciprocità, è stata posta da Claude Lévi-Strauss alla base della ricerca antropologica».

Sarà duro il lavoro di persuasione per la nuova sociologia.
«Dal 1982 c’è un Movimento Anti Utilitaristico nelle Scienze Sociali, che prende nome da Mauss. E’ nata una scuola di pensiero la quale ha prodotto una rivista (che ho diretto); la tesi del movimento è stata illustrata in oltre mille articoli e più di trenta libri. L’idea che ne scaturisce è che bisogna dare meno importanza all’ homo oeconomicus e più spazio all’homo politicus, all’homo ethicus e all’homo religiosus ».

Che cosa ha scoperto, in pratica, l’inchiesta di Marcel Mauss?
«Ha dimostrato che i doni, nelle società primitive, non avevano alcun valore materiale. Contavano come simboli della relazione sociale, e comunque non avevano nulla a che vedere con la carità. Talvolta esprimevano anche spirito aggressivo e agonismo. Il dono è un simbolo e rispetta la legge della reciprocità. È la circolazione di un debito che può essere invertita ma non fermata».

Che cosa resta del dono arcaico nella società di oggi?
«Prendiamo il caso dei donatori di sangue o di organi. Fanno un dono che potenzialmente è destinato a tutti, alla famiglia, ai vicini, ai concittadini come agli stranieri. L’obbligo di dare rimane una regola della socialità primaria. Esprime amore o amicizia? Secondo me esprime simpatia o meglio quella che io chiamo aimance, cioè più esattamente 'l’interesse per gli altri'. Si tenga conto che la teoria dell’estremo utilitarismo era stata già emendata dalla corrente anglosassone della filosofia morale. L’individuo persegue la duratura soddisfazione del suo interesse personale se riesce anche a massimizzare la soddisfazione degli interessi del maggior numero di persone. Un egoismo altruistico».

Come convertire l’egoista in altruista?
«C’entra la costruzione dell’identità, individuale e collettiva. L’egoista non vuole tanto possedere, quanto 'essere riconosciuto'. Intendiamoci: anche il dono può essere interessato ma le indagini sociologiche mostrano che 'è interessante essere disinteressati'. Il disinteresse paga».

Lo studioso, che partecipa al summit in Vaticano sul bene comune: «Ormai è chiaro che i gesti gratuiti sono un dato decisivo nello sviluppo delle società. Bisogna uscire dall’utilitarismo esasperato»

(Luigi Dell'Aglio - 03/05/2008 Avvenire)