domenica 5 aprile 2009

Economia del dono: Serge Latouche ed il ritorno del dono




IL RITORNO DEL DONO

Ho intitolato la mia relazione "Il ritorno del dono". Perché "Il ritorno del dono"? Perché oggi il tema del dono è possiamo dire di moda. Ma non è sempre stato così: il tema del dono - prima che il MAUSS (Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali) lo riscoprisse 20 anni fa dedicandogli diversi numeri e numerosi articoli - non aveva, si può dire, alcun diritto di cittadinanza nelle scienze sociali e nel dibattito politico, né godeva di buona stampa. Infatti, lungi dall’essere considerato come il fondamento dei legami sociali, il tema del dono evocava piuttosto le Dame di Carità, la beneficenza. L’attuale moltiplicarsi di libri e articoli su questo tema mostra che la situazione è radicalmente mutata.
Fra le pubblicazioni in francese che conosco meglio, possiamo citare Alain Caillé, ovviamente, e Jeacques Godbout., che è anche abbastanza conosciuto in Italia, ma anche Jeacques Derrida, un filosofo che al dono ha dedicato un libro. E poi Jean-Luc Marion, Maurice Godelier, Michael Singleton, Emanuel Levinas, Guy Nicolas, ecc. Anche fra gli anglosassoni si possono menzionare, fra gli altri, Mary Douglas, Kris Gregory, ecc. In Italia ci sono molte traduzioni e anche alcuni libri originali. Non li conosco tutti, ma conosco un libro di Pier Paolo Donati, di Bologna.
Alla questione, si sono interessate anche alcuni economisti come George Akerlof, ecc.
È come se l’invasione, la retorica, e l’inflazione editoriale del tema del dono, fossero esattamente proporzionali a quelli del mercato nel contesto di una mondializzazione, che non è altro che la totale mercantilizzazione del mondo.
Il dominio dell’universo mercantile sulla sfera non mercantile è ben illustrato dall’ultima opera di Jeacques Godbout sul dono, che ha mostrato che il sistema ospedaliero canadese, fino ad anni recenti, era dominato dal volontariato e i salariati provocano addirittura un certo imbarazzo, sentivano il bisogno di giustificare il loro salario. Oggi è completamente differente: un volontario che opera nel settore ospedaliero è potenzialmente considerato come uno che usurpa il lavoro del salariato. Il principio dominante non è più lo stesso.
Siamo in presenza di un paradosso sul quale vale la pena di interrogarsi. Ma anche siamo in presenza di un abbozzo di risoluzione di un’impasse sul quale ci siamo cacciati.
Allora ho diviso la mia relazione in due parti: la prima parte: "L’onnipresenza paradossale del dono", la seconda: "Il carattere sovversivo dello spirito del dono".
1. L’onnipresenza paradossale del dono
Questa presenza del dono tanto nel Nord quanto nel Sud è paradossale. Perché è paradossale? Perché il dono è presentato, generalmente, come un retaggio pre-moderno, una cosa arcaica. Per quel che riguarda il Sud, è vero che da decenni gli esperti di sviluppo criticano i legami di solidarietà, le spese ostentatorie, la scarsa monetarizzazione del mondo rurale, l’assenza di dinamica, di creazione di bisogni nuovi, l’insufficienza della produzione per la vendita. Tutte queste cose vicine allo spirito del dono costituiscono, secondo alcuni autori, resistenze arcaiche al libro gioco dei meccanismi naturali, cioè dei meccanismi del mercato. Freni insopportabili all’accumulazione produttiva del capitale e blocchi inammissibili al sacrosanto sviluppo e al sacrosanto libero mercato, libero scambio.
Or dunque: non è sicuro che l’onnipresenza del dono nelle società africane sia soltanto una sopravvivenza provvisoria. La scoperta dell’altra Africa, per riprendere il titolo del mio libro, ci interroga su questo punto. La sopravvivenza di questo Pianeta Nero fa supporre che vi regni solo la miseria: chiunque ci rifletta in buona fede non può fare a meno di porsi la questione del mistero di questa sopravvivenza. Si tratta di un problema sia teorico che pratico.
Bisogna proprio constatare che questa terra africana alla deriva - il cui prodotto interno lordo rappresenta, per quanto possa sembrare ridicolo, meno del 2% del PIL planetario - conta circa 800 milioni di persone. Non tutte sono scheletri famelici sfuggiti ai campi della morte; non tutte vivono della sola carità internazionale. Questi naufraghi dello sviluppo non sono indiani confinati in una riserva conservati come le specie in via di estinzione a testimonianza di un passato ormai finito per sempre.
C’è dunque, accanto all’abbandono dell’Africa ufficiale, accanto alla decrepitezza dell’Africa occidentalizzata, un’altra Africa ben vivente, se non in buona salute. Questa Africa degli esuli dell’economia mondiale e della società planetaria, continua non di meno a vivere e a voler vivere anche contro corrente. Quest’altra Africa non è quella della razionalità economica: se il mercato vi è presente non vi è onnipresente, non è una società di mercato nel senso di una società "tutto mercato". D’altra parte non si tratta nemmeno più di un’Africa tradizionale, comunitaria, se mai questa è mai esistita. È un’Africa di bricolage, dell’arrangiarsi, in tutti i campi e a tutti i livelli, tra il dono e il mercato. Tra i rituali oblativi e la mondializzazione dell’economia. Per aver perso la battaglia economica, l’Africa ha forse definitivamente perso la guerra delle civiltà? Questa è la domanda. Penso di no: l’economia è stata sconfitta, ma la società è sopravvissuta a tale disfatta. Ciò significa che le funzioni che noi attribuiamo alle istanze tecnica ed economica, la cosiddetta produzione delle ricchezze, sono state in ogni caso assunte, bene o male, dalla società.
La spiegazione più plausibile è dunque che l’economia e la tecnica sono confluite di nuovo nel sociale, sono state reincorporate", reinbedded. Questo si vede sia nel fenomeno dell’economia informale, che nella persistenza della solidarietà quotidiana.
Le Afriche dunque, attraverso la loro diversità, rappresentano un caso certo complesso ma esemplare di incorporazione parziale dell’economico nel sociale. Ciò che chiamiamo "economia informale" e che in realtà è una vera società vernacolare o neoclanica, come scritto nel mio libro, è la migliore illustrazione di questo fenomeno. Al di là della pluralità, della pluri-attività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai collegati, come si chiamano a Grand Yoff, alla periferia di Dakar e che ho studiato nel mio libro, è l’importanza attribuita al tempo, all’energia e alle risorse destinate ai rapporti sociali. Anche se vi si osserva una attività intensa, sarebbe improprio, nella maggior parte dei casi, parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni, prendono molto tempo: dare e prendere in prestito; donare e ricevere; aiutarsi reciprocamente; fare una ordinazione; consegnare; informarsi… occupano gran parte della giornata senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno, gioco.
Come osservava un padre gesuita un po’ stregone - un nganga, come si dice in Africa - Eric de Rosny che vive a Douala, nel Cameroun: "La festa occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione". Tutti gli economisti lo dicono. Ma questa festa è appropriata ai bisogni affettivi di questa popolazione. L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai collegati piuttosto di quello di essere un creditore che ci rimette sempre.
Ora, come Jacques Godbout ha finemente osservato nel suo libro Lo spirito del dono, se il dono funziona bene ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male, ciascuno ritiene di aver ricevuto di meno. È come una coppia: quando funziona bene ciascuno dei due sposi, pensano di ricevere più, ma quando uno pensa di dare più che ricevere, allora il divorzio non è molto lontano.
Anche se qui non abbiamo il tempo di sviluppare tutto quello che ho scritto nel mio libro L’Altra Africa sul funzionamento della società vernacolare, su questa società neoclanica, non sarà comunque difficile riconoscervi una logica molto diversa dalla logica mercantile. È la logica del dono e dei rituali oblativi. Come dovunque, il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma qui lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato.
Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire così come lo analizza Marcel Mauss, famoso sociologo francese. La cosa centrale, fondamentale in questa logica del dono è il fatto che il legame sostituisce il bene. Risulta chiaramente a questo punto che dire che nella società vernacolare l’economia è re-incorporata nel sociale o dire che l’economia neoclanica funziona secondo le logiche del dono significa dire la stessa cosa: le due formulazioni sono del tutto equivalente.
Allora, questo funzionamento della società vernacolare si iscrive nella persistenza, o meglio nel riemergere di una certa solidarietà africana. Le società africane hanno ignorato a lungo l’individualismo e continuano in buona misura a farlo, nonostante fortissime spinte dei processi di individuazione.
L’imperialismo del sociale si manifesta attraverso l’importanza dei rapporti di parentela. La parentela si estende non solo al gruppo famigliare allargato, ma serve da stampo nel quale si prendono forma i rapporti di amicizia, di vicinato, di associazione sportiva, culturale, politica, religiosa addirittura i rapporti di lavoro e le forme di potere. Essa è riattivata e rafforzata dalle cerimonia, dal culto degli antenati, dai legami con la terra, dai rapporti con il mondo dell’invisibile. Tutto ciò genera la famosa solidarietà africana che non ha veramente equivalente altrove.
Questa solidarietà polimorfa resiste anche all’emigrazione e la si può osservare fin nelle periferie delle grandi città: Parigi, ma anche Roma, Bologna, ecc. Presso i maliani, i senegalesi, con l’ospitalità obbligatoria per i fratelli, fratelli nel senso africano che è molto allargato; con le rimesse che fanno vivere la famiglia rimasta in patria; con le collette per costruire la moschea o la scuola nel villaggio.
Questa fortissima pregnanza del sociale permette di rompere l’isolamento e l’incognito. Nei casi più difficili essa è letteralmente ciò che permette di resistere, di sopravvivere. Essa è anche la causa del successo della specificità della società vernacolare africana. Gli obblighi di donare, di ricevere e di restituire intessono i legami tra gli uomini e gli dei, tra i vivi e i morti, tra i genitori e i figli, tra i fratelli maggiori e i cadetti, tra i sessi, all’interno delle classi di età, ecc. ecc.
Essi piegano fortemente le cosiddette leggi del mercato; limitano i guasti dei rapporti mercantili; assicurano un minimo di garanzia contro l’esclusione economica e sociale.
L’economista antiutilitarista constata quindi che il mercato assoluto non esiste. In altri termini: il fondamento dello scambio sociale non è e non può essere il mercato. Fondamentalmente il rapporto sociale non si basa e non può basarsi sulla legge della domanda e dell’offerta.
Certo, l’interesse è presente anche nei rituali oblativi, come nei rapporti domestici. Ma ciò che interessa all’economista critico non è dimostrare che il dono assoluto, la gratuità integrale non esistono ma, al contrario, è mostrare che l’interesse, nel senso stesso del calcolo economico, non è né esclusivo né onnipresente. In breve il dono esiste e ciò può allentare la stretta dell’imperialismo economico.
Le osservazioni dell’antropologo Guy Nicolas, in un libro che è stato tradotto dalla Bollati Boringhieri, a proposito degli Haussa del Niger che lui ha studiato e che chiama "i mercanti per eccellenza" sono completamente trasferibili a tutta l’Africa e si possono riprendere in parte le sue analisi.
Lungi dallo scomparire con l’irruzione della modernità, i rituali oblativi conservono tanta più importanza in quanto rappresentano per una società un modo di preservare la propria identità pur inserendosi, per amore o per forza, nel mercato mondiale.
Scrive Guy Nicolas: "Le pratiche oblative in piena trasformazione da noi osservate, non erano vestigia di un passato arcaico, ma una risposta moderna a minacce contemporanee che mettono in gioco la permanenza dell’identità di questa società. Esse avevano una funzione politica manifesta, attestavano inoltre l’efficacia della funzione simbolica, in quanto principio di base dello scambio interumano contrapposto a quello del mercato. Egli precisa: è come se una sorta di comprensione spontanea dei pericoli che essa corre [la funzione simbolica n.d.r.) a causa del fascino esercitato su di lei dalla moneta e dai beni di importazione, la portasse ad annullare questi ultimi snaturandoli, trasformandoli in puri gettoni di comunicazione: infatti sono proprio i soldi e il loro potere che minacciano più direttamente le basi della organizzazione collettiva, a cominciare dalla parentela. È per procurarsene che la sposa si allontana dai legami del matrimonio, che il figlio abbandona il padre, che il suddito si rifiuta di giurare fedeltà e che il signore multa il suo cliente, il salariato, o lo spoglia. È perché alcuni vogliono possederne di più che altri muoiono di fame e di miseria: situazione impensabile in una collettività africana tradizionale.
Il ricorso al dono appare nello stesso contesto come la manifestazione di una volontà di resistenza al potere esterno utilizzando le risorse del rito oblativo al fine di opporre a tale potere un contropotere popolare il quale impedisca al primo di realizzare i suoi fini ultimi, cioè la distruzione di ogni quadro sociale estraneo al mercato e la proletarizzazione totale delle popolazioni locali in vista di un loro inserimento sul mercato in quanto produttori o consumatori, isolati, atomizzati e concorrenti all’interno di un ordine omologante. Egli conclude: il gioco oblativo ha acquisito pertanto un carattere sovversivo e la consuetudine serve al produttore per mantenere un contropotere. Osservazioni recenti sulle cerimonie di donne di Dakar confermano assolutamente questa analisi, i rituali oblativi si trasformano ma si mantengono e a volte si rinforzano.
A questo punto, a fianco dell’importanza del dono nei Paesi sottosviluppati come forma di resistenza, all’imperialismo dell’economico e del mercato, è interessante parlare della riscoperta del dono da noi, in Occidente. Si può parlare di un’importanza sommersa del dono che costituisce lo zoccolo della socialità primaria.
Non ci si è accorti finora che le osservazioni sul dono sono sempre opera di persone estranee alla società interessata e che non disponiamo di osservazioni etnografiche sistematiche sulla nostra società. È evidente che il dominio mitico dell’economia ci rende opaca l’onnipresenza, anche da noi, del dono. E non meno certo che questa pregnanza dell’economico ci spinge ad essere più sensibili al dominio del dono nelle società primitive e anche nelle società tradizionali o nelle società moderne esotiche, come quelle di cui ho parlato, gli haussa, i senegalesi, ecc.
L’esperienza della ospitalità mauritana, della quale ho parlato nel mio libro L’altra Africa, e della società vernacolare mi ha fatto prendere coscienza dell’importanza del dono in una società straniera e arcaica, tra virgolette, per certi aspetti. Tuttavia, anche qui in Africa, i miei interlocutori locali con i quali parlavo di queste scoperte rimanevano scettici. Lo sguardo che portavano sulla loro società non era molto diverso dal modo in cui noi consideriamo la nostra. E questo tanto più in quanto fortemente occidentalizzati gli intellettuali africani sono già molto toccati dalla propaganda economica e tengono molto a mettere in risalto la modernità del loro Paese. I rapporti mercantili e la legge della domanda e dell’offerta sembrano loro la realtà economica dominante e l’economia del dono un aspetto marginale, possiamo dire folcloristico, tutt’al più una sopravvivenza, un insieme di buone maniere al di fuori della economia. Non sembrava loro che questi rapporti di dono fossero diversi dai nostri rituali di cortesia, con mazzi di fiori alla padrona di casa e i regali di compleanno. Tutt’al più tendono trovarci tirchi, meschini, individualistici non molto generosi. Riconoscono tuttavia, non senza reticenza, che una parte importante di beni e servizi circola al di fuori della sfera mercantile ma rimangono perplessi di fronte a questa "economia non economica" e di fronte alla coesistenza di quella realtà con le altre dure realtà della economia monetaria.
Ciò pone a noi occidentali un interrogativo sulla nostra realtà, nonché sul posto che vi occupa il dono e sul significato dell’economia di cui siamo portatori.
Una parte considerevole della nostra morale e della nostra vita risiede tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e insieme della libertà. Osservava già Marcel Mauss, in conclusione dell’Essai sur le don. E continuava, nella stessa vena, compiacendosi dell’esistenza di persone e classi che conservano i costumi di un tempo ecc.
Questo riconoscimento da parte di Mauss dell’attualità del dono è importante e interessante ma resta viziato dal sospetto di evoluzionismo. Si tratta per lui soltanto di un retaggio da considerare con nostalgia e non di un principio attivo sempre vivente.
Ma il dono e la sua logica sono stati sempre ben presenti nella realtà occidentale. Alain Caillé ha a lungo insistito sul fatto che tutta la base della socialità primaria si forma sul dono. Lui la presenta così: Stato, mercato, scienza sono istituzioni reali addirittura le istituzioni chiavi dell’ordine sociale moderno. Tuttavia non incarnano affatto la società nella sua interezza, anzi formano lo spazio di quella che proponiamo di chiamare socialità secondaria in cui le relazioni tra esseri umani e sociali non sono relazioni tra persone ma tra funzioni e in cui esse sono subordinate ad un’esigenza di impersonalità, sia che questa prenda la forma di uguaglianza davanti alle leggi dello Stato, sia che abbia la forma di equivalenza sul mercato economico o quella della oggettività scientifica. Ma sotto questa forma di socialità secondaria, a monte e a valle, sopravvive nella società moderna, come in ogni società un’altra società: quella della socialità primaria, quella dei rapporti tra persona e persona e in quanto tale soggetta all’esigenza della personalizzazione. È nel registro di questa socialità che si sviluppano le alleanze, le parentele, la famiglia e quindi i rapporti di vicinato, l’amicizia e buona parte della vita associativa.
Niente famiglia, niente riproduzione delle generazioni, niente cittadinanza, perfino nessun spirito di corpo nei collettivi di lavoro senza farvi ricorso. Anche Marcel Mauss invocava questa socialità primaria contemporanea. Ne abbiamo un esempio nella vita di famiglia attuale anche senza aver bisogno di risalire alle famiglie di tipo gruppo politico domestico. Viviamo gli uni con gli altri in uno stato al tempo stesso comunitario e individualistico, di reciprocità diverse, di buoni servizi resi reciprocamente, alcuni senza spirito di ricompensa altri con ricompensa obbligatoria, altri ancora a senso rigorosamente unico poiché dovete fare per vostro figlio quel che avreste desiderato che vostro padre facesse per voi.
Malgrado questa dichiarazione di Mauss provenga da un testo posteriore al Saggio sul dono, egli non ne trae ulteriori conseguenze. Al catalogo già impressionante delle sopravvivenze del dono stabilito dagli autori evocati si possono aggiungere ancora alcune osservazioni più personali per esempio sulla vita mondana, o sul militanza. I sentimenti generosi non restano pure disposizioni, essi nutrono interventi pratici importanti. La militanza politica, umanitaria, sociale, religiosa è proprio il rimborso di un debito. Questi buoni sentimenti si scambiano in raccolte di fondi, partecipazioni a dei congressi - come questo - contributi, oboli, versamenti di ogni sorta. Bisogna manifestare la propria solidarietà, il proprio desiderio di fare qualcosa, di trasformare il mondo, di lavorare ad un mondo altro più giusto, ecc. ovvero per l’Altro mondo.
L’attivismo, l’impegno sono doni e controdoni. Ciò che nutriva i gruppi o le sette di ieri, oggi ispira le Ong - tra l’altro ribattezzate da poco Organizzazioni di Solidarietà Internazionale - che si contano a migliaia. Fioriscono sullo stesso terreno. Le somme destinate a questi investimenti dai rientri incerti, dalle scadenze imprevedibili, sono lungi dall’essere trascurabili. Ci sarebbero in Francia, secondo varie stime, circa 3 mila Organizzazioni Non Governative di ogni dimensione, animate da 25 mila militanti, dotate complessivamente di risorse vicine ad 1.300 milioni di franchi. Essi costituiscono tuttavia soltanto la parte economicamente più visibile di questa vasta economia invisibile. Un collaboratore del MAUSS ha potuto quantificare il peso economico di queste risorse in tre quarti del prodotto interno lordo francese. Nel Canada, secondo statistiche, il valore monetario del lavoro non remunerato, incluso il settore dei legami primari e quello del dono agli stranieri, rappresenta il 34% del PIL. È degno di nota che questa stima non è inferiore alle stime minuziose di Guy Nicolas sui rituali oblativi degli haussa del Niger: questi ultimi rappresenterebbero circa un terzo delle spese e dei ricavi nei bilanci degli attori. Per la Mauritania, secondo le mie osservazioni, si otterrebbero cifre dello stesso ordine.
Così più di un terzo dell’economia sarebbe inclusa in un Terzo settore, cioè al di fuori dello Stato e del mercato.
È noto che per rinforzare il loro debito nei confronti del Sole, gli Aztechi gli offrivano il cuore palpitante di vittime a metà consenzienti. Tutto lo sforzo dell’Occidente per negare l’esistenza di un debito non sta forse per crollare di fronte al ritorno del rimosso, stimolato dalla moltiplicazione delle catastrofi ecologiche e dal profilarsi di minacce ben precise? Questa è la domanda.
Eccoci così giunti alla seconda parte del mio discorso.
2. Il carattere sovversivo dello spirito del dono.
Questa riscoperta recente del dono tanto nel funzionamento della socialità primaria quanto come concetto teorico che poteva far fronte al mercato mi sembra fondamentale nel momento del trionfo esclusivo del capitalismo mondiale e del dominio arrogante del liberismo economico.
Essa favorisce lo sviluppo di rimedi ai danni generati al sistema. Tuttavia questi rimedi non sono privi di ambiguità. Consideriamo le soluzioni proposte per combattere l’esclusione. Ricerche accurate proverebbero senza ombra di dubbio la presenza dello spirito del dono a fianco della società primaria in numerosi altri settori della vita economica. Anche nel 21 Secolo la vita non è un gigantesco supermercato, non è vero. L’insieme dei mercati non forma ancora, fortunatamente, il Mercato la M maiuscola. Tuttavia la convinzione che tutto si vende e tutto si compra produce gli effetti di una profezia autorealizzantesi. È presso gli esclusi o presso coloro che con essi sono solidali che si produce un comportamento reattivo: aspirazione a ritrovare un po’ d’altruismo in una società senza pietà, necessità di sostenersi a vicenda per resistere in appoggio agli svantaggiati. Tutta l’economia solidale e l’economia cosiddetta plurale si scrivono in questa riscoperta dello spirito del dono e della necessità di aggiungere un supplemento di anima al mercato. I sistemi di scambio locale sono un esempio interessante e caratteristico di questa ricerca di un’alternativa.
Di che si tratta? I sistemi di scambio locale sono associazioni in cui membri scambiano, al di fuori dal mercato e in base ad una moneta appositamente creata e valida all’interno del gruppo, beni e servizi di ogni genere. I prodotti scambiati vanno da lavori di riparazione domestica, o di automobili a servizi di baby-sitter, passando per corsi di lingua, massaggi, fornitura di ortaggi, prestito di utensili, e ovviamente tutta la gamma di prodotti di seconda mano. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così persone escluse dal lavoro le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato possono ritrovare forme di attività e, quel che è forse più importante, di riconoscimento sociale e al medesimo tempo complementi di risorse non trascurabili.
Questi sistemi di scambio locale sono nati in una società individualista. Il loro padre è rappresentato dai LETS (Local Exchange Trade System) sorti nel mondo anglosassone, razionale e, com’è noto, protestante. Il lato molto formale e in una parola puritano di questa organizzazione contrattuale, democratica con tutta la sua sottintesa trasparenza, senso del dovere, serietà di spirito - tutte le incontestabili qualità dei nostri vicini d’oltre Manica - non è in sintonia con lo spirito latino, più caldo, certo, ma anche più clientelare meno scrupoloso, e certamente molto indisciplinato. Benché anche nei LETS i partecipanti mettano l’accento sull’arricchimento personale e sulla rottura dell’isolamento, l’obiettivo utilitaristico resta prioritario.
I membri dei sistemi locali di scambio locali francesi, mi sembra vanno più in là dei loro cugini anglosassoni: hanno subito collegato la loro pratica allo spirito del dono. "La cosa più importante del SEL" (Système d’échange local) - dichiara una madre di famiglia - "sono gli incontri: ho conosciuto persone che altrimenti non avrei mai frequentato". Per la maggior parte dei membri dei SEL il legame è più importante del bene. Esattamente secondo la logica del dono. C’è convivialità grazie alle riunioni, alle fiere dei SEL. Sono occasioni di festa e costituiscono momenti importanti della vita sociale così come le innumerevole feste degli abitanti di Grand Yoff, questa grande periferia di Dakar che ho studiato nel mio libro L’altra Africa. Questa aderenza alla trilogia del dono, dare-ricevere-restituire, lo zoccolo duro delle società olistiche, non è assolutamente evidente in un’organizzazione che per prima cosa inventa una moneta di scambio e regola i suoi movimenti col computer.
Così facendo i Sel devono fare i conti con la sanzione per gli abusi. "Credo molto di più al controllo sociale" - dichiara uno dei fondatori Alain Bertrand, animatore del primo SEL francese - "Ci si conosce tutti. Chi si azzarda a indebitarsi senza restituire i servizi dovuti alla collettività, sarebbe messo all’indice dai suoi vicini". Lo studio di un italiano, un libro che è uscito recentemente di cui ho fatto la prefazione, Paolo Coluccia, La banca del tempo - Un’azione di solidarietà e di reciprocità, analizza una delle forme più affascinanti della creatività popolare: quella delle piccole comunità di scambio di beni, servizi, tempo e saperi. Mostra tutti i vantaggi che tali iniziative possono apportare per preservare e ricostruire il tessuto sociale di prossimità. L’inchiesta che lui fa sulle banche del tempo italiane è piena, ricca di particolari concreti.
Essa è completata da un panorama suggestivo delle esperienze comparabili negli altri Paesi. Informazioni sulle esperienze certo di importanza ineguale come quella di ITHACA negli Stati Uniti, i Tauschringe tedeschi, i Sistemi di scambio locale francesi (SEL), i LETS in Gran Bretagna e anche i SEC (Systèmes d’échanges communautaires) in Senegal, questi ultimi fatti ad imitazione dei SEL francesi. È una cosa molto interessante perché in una certa misura i SEC rappresentano l’imitazione di una creazione popolare africana che dopo è tornata in Africa in altra forma.
Tutte queste informazioni forniscono dati preziosi sulla storia, sul funzionamento e sul vissuto di queste micro-società .
Ma tutto questo non è privo di ambiguità: c’è una ambiguità della sovversione. Prendiamo il problema della portata del fenomeno e del suo significato. Esso si limita a ricreare rapporti di buon vicinato nelle zone di esclusione? La dimensione sociale di queste esperienze non deve mascherare il loro eventuale effetto sovversivo globale.
Si può attribuire ai vari LETS, SEL, banche del tempo, ecc. l’ambizione non solo di rattoppare un tessuto sociale che si lacera ovunque e di prolungare l’agonia di una megamacchina ingiusta e contraddittoria che corre irrimediabilmente verso al catastrofe, ma anche di costituire un vero e proprio laboratorio volontario del futuro paragonabile a quello involontario delle cittadine di periferia africane. In entrambi i casi si tratta di embrioni di società alternativa alla modernità al di là del cataclisma dello sviluppo. Bisogna riconoscere che i discorsi sull’economia plurale e, più in generale, attorno a questo tipo di logica associativa per mezzo della quale si pensa di risolvere le contraddizioni sociali attraverso l’impiego di virtuosi dispositivi tecnici ed un appello alla buona volontà, non si muovono su una linea veramente alternativa. Si tratterebbe di una economia articolata su tre poli: il mercato, lo Stato ed un polo di reciprocità. Questi poli corrispondono ai differenti principi di organizzazione della società: il principio di mercato, il principi di ridistribuzione e il principio di reciprocità.
È il loro riconoscimento ed è la loro ibridazione che, secondo Jean-Luis Laville (un sociologo francese, anche lui tradotto da Bollati Boringhieri), permettono di pensare la nozione di economia plurale in opposizione al principio di unicità del mercato.
La costruzione sociale della struttura associativa che in condizioni particolari tiene insieme e ibrida volontari, utenti e istituzioni, ovvero reciprocità, mercato e Stato rappresenterebbe la possibilità di reincarnare l’economia nella società.
Ora, con il capitalismo, con l’avvento del mercato come principio sociale, si determina una vera rottura che fa della società una società di mercato che assorbe o sussume gli altri principi. L’insieme della vita sociale è sottoposta alla legge economica e alla pretesa che il lavoro, la moneta e la natura, divengano merci.
Con la riaffermazione del liberismo nel corso degli anni ’80 il mercato si presenta esattamente come astratto principio unico di organizzazione sociale.
Il problema non consiste dunque in un eccesso di crescita economica che si tratterrebbe di ricondurre a giuste proporzioni mediante la costruzione di corpi intermedi tra mercato e Stato - come il cosiddetto Terzo Settore o l’economia plurale - ma è la forma stessa della società che diventa economia. È una forma di socializzazione che si impone a tutta la società con una violenza tanto più legittima quanto più appare generata dalla necessità.
L’economia non si sviluppa contro o fuori dalla società. Essa piuttosto la ingloba e procede alla sua riorganizzazione secondo la logica dell’efficienza. In tal senso la possibilità di reincorporare l’economico nel sociale, cui sopra si è accennato, resta problematica fin tanto che noi resteremo all’interno di questo immaginario economico.
Assistiamo infatti ad una situazione paradossale: il ritorno del dono può essere rivendicato con una certa verosimiglianza dagli ultraliberisti. In effetti, smantellando lo Stato sociale, Margaret Thatcher, e Ronald Regan non hanno rinunciato a fare appello allo spirito di solidarietà dei loro concittadini per porre rimedio alle insufficienze del mercato, ciò che gli economisti chiamano Market Failure (fallacia economicista).
Certo, questa posizione non cessa di essere paradossale, poiché la regolazione attraverso il mercato si fonda sulla fede nella armonia naturale degli interessi e dunque sulla esaltazione dell’egoismo. Come giustificare l’altruismo che autorizza la ritirata dello Stato? D’altra parte i socialdemocratici devono affrontare un paradosso in qualche modo simmetrico: lo stato sociale si base sulla affermazione della necessaria solidarietà dei cittadini e si riallaccia ad una visione altruista dell’uomo. Solo che rendendo obbligatorio il finanziamento della previdenza sociale si impedisce allo spirito del dono di manifestarsi.
In realtà, se lo Stato sociale rivendica la giustizia e non la carità ciò implica certamente uno spirito del dono. Ed è infatti questo spirito del dono che serve da fondamento alla solidarietà e alla condivisione che presiedono alla previdenza sociale, agli assegni famigliari, alla indennità di disoccupazione, alle pensioni sociali ecc.
Tutte queste situazioni in effetti sono fondate su una relativa ma reale mutua condivisione delle risorse di fronte ai rischi, secondo la massima, "tutti per uno, uno per tutti".
Questo sistema costituisce il fondamento della moderna cittadinanza, equivalente dell’antica filia, l’amicizia aristotelica. La mondializzazione ultraliberale smantellando questo sistema, libera il dono tanto nella forma della carità quanto come base necessaria di una ricostituzione del legame sociale.
Il problema centrale è proprio una questione di "immaginario": mi sembra che ci sia una contraddizione insormontabile tra l’immaginario economico in cui siamo immersi e l’immaginario che implica l’espansione di una autentica economia plurale, se noi vogliamo che quest’ultima abbia una qualche consistenza.
Si tratta allora di pensare la compatibilità tra i tre poli della triade scambio-ridistribuzione-recipricità. Come l’etica della guerra economica ad oltranza può coesistere con l’etica della solidarietà, della gratuità e del dono che dovrebbe animare il mondo dell’associazionismo, con l’austerità della cittadinanza e l’uguaglianza fraterna implicate dallo Stato democratico? Come possa trovar posto alla Corte dei Grandi, fra i vari Bill Gates e soci?
Il gioco economico è fatto di darwinismo sociale accompagnato dalla morale: "occhio non vede, cuore non duole", e i cui ingredienti sono le offerte pubbliche di acquisto selvaggio, lo spionaggio industriale, l’evasione fiscale di massa, la corruzione attiva e passiva, mescolata ad un’etica protestante che sboccia nella buona governance imposta dai fondi di pensionamento.
Questo gioco in ogni caso si fa sulle spalle dei lavoratori salariati ed attraverso la strumentalizzazione di massa dei consumatori. L’etica della solidarietà e della cittadinanza egualitaria sono con assoluta evidenza condannati a restare la cattiva coscienza dell’etica degli affari. Non si tratta di fare le verginelle timide ma il confronto anche conflittuale non può esistere che nell’ambito di un rapporto di forza relativamente equilibrato non certo in una giungla senza principi. Come ci accingiamo a crescere i nostri figli e a fabbricare i futuri attori della società del domani? Quali di queste morali ci troveremo ad ascoltare e ad approvare con il plebiscito dell’Auditel alla TV? Il successo recente in Francia di Love Story e altri Reality Show non è di buon auspicio. La verità è che con il trionfo della società del mercato e l’apoteosi della guerra economica viene a mancare lo spazio per il dialogo, per un confronto pacifico tra queste etiche. Persino la ridistribuzione, non necessariamente altruista - e certamente conforme agli interessi a lungo termine delle multinazionali - finisce per essere svalutata, schernita e marginalizzata. I governi socialisti difensori naturali dei servizi pubblici, partecipano allegramente al fatto che questi stessi vengano fatti a pezzi e si rendono complici di un pensiero unico che tratta come un cane rognoso i sistemi di pensione sociale, pur conformi al buon senso e alla giustizia, per attuare invece fondi di pensionamento all’americana.
In queste condizioni un vero ri-assorbimento, come dice Arnoud Berthoud, dell’economico nel sociale non consisterebbe né in un bricolage teorico e pratico con l’aggiunta di uno o due altri settori, né in una buona volontà socialisteggiante. Il non economico, la reciprocità, la ridistribuzione, il non mercantile in un contesto di mercantizzazione totale del mondo rimangano totalmente sottomessi all’immaginario mercantile.
Un vecchio proverbio che a me piace molto dice che quando si ha un martello in testa si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini moderni si sono messi un martello economico nella testa: tutte le nostre preoccupazioni, tutte le nostre attività, tutti gli avvenimenti sono visti attraverso il prisma dell’economico. Non succedeva così per esempio nel Medio Evo, quando tutto era piuttosto immerso nel religioso - forse non era meglio ma era differente - né a maggior ragione presso i greci che tendevano a ridurre ogni cosa al politico filosofico e più ancora tra le popolazioni cosiddette primitive per le quali i rituali e la parentela costituiscono la prima preoccupazione. Finché il martello economico rimarrà nelle nostre teste, questi tentativi di riforma saranno un vano e spesso pericoloso agitarsi.
Come pensare che oggi possa bastare un Terzo settore per consentire alla società di dominare nuovamente l’economia anziché esserne dominata? Più che mai le miserie create, le crepe e le minacce che appaiono nel corpo sociale, rendono necessarie misure di difesa e di protezione della società per uscire veramente dalla Market Failure. Occorrerà seguire la diagnosi del filosofo Cornelius Castoriadis: abbiamo bisogno di una nuova creazione immaginaria di un’importanza che non ha pari nel passato. Una creazione che ponga al centro della vita umana significati diversi dall’espansione, della produzione e dal consumo. Che proponga obiettivi di vita diversi tali da essere riconosciuti dagli esseri umani come degni di sforzo. Questa è l’immensa difficoltà che ci troviamo a fronteggiare: dovremmo volere una società in cui i valori economici non siano più centrali o unici, dove l’economia sia messa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Una società in cui si rinunci dunque a questa corsa folle verso un consumo sempre crescente. Tutto ciò è necessario non soltanto per evitare la definitiva distruzione dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per liberarci dalla miseria psicologica e morale propria degli uomini contemporanei. Non si tratta dunque, e sarà la mia conclusione provvisoria, di bandire i mercati o di escluderli, ma di limitare il mercato lottando contro l’evidenza del suo spirito. E quindi in questo processo di liberazione delle mondialità dall’economicismo, (dis-economicizzazione delle mondialità) che un progetto di economia alternativa plurale e solidale può acquistare senso e consistenza e non essere soltanto un alibi, un’utopia, o, addirittura, un giochetto per ingenui. Non ci si ritroverà più allora di fronte ad un tentativo di bricolage di formule astratte (mercato, ridistribuzione, reciprocità), ma ad una pratica ben contestualizzata di rifondazione.

1 commento:

  1. Ciao,
    sai di quando è la relazione e dove è stata pubblicata?
    Grazieee

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