sabato 28 marzo 2009

La mistica del lavoro: Alain De Benoist


Questo di Alain De Benoist, (come del resto quelli dei post precedenti) è un articolo lungo e forse faticoso. Insieme agli altri articoli, va però a costituire una solida base teorica, un sostegno anche intellettuale al paradigma del dono, all'Economia della Felicità. Leggere quindi come sia stata inventata ed applicata la "mistica" dl lavoro sarà senz'altro istruttivo. L'ideologia del lavoro come lo conosciamo noi è qualcosa di molto recente, mai apparsa prima nella storia dell'umanità. Le conclusioni attuali e tragiche di questo articolo, saranno il complemento alla visione di Silvano Agosti,al suo "Discorso dello schiavo" ed alla speranza della Kirghisia.


Alain De Benoist - La storia dell'ideologia del lavoro

L'ideologia del lavoro sembra avere origine nella Bibbia, dove l'uomo è definito, sin dal momento della creazione, dall'azione che esercita sulla natura: «Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la terra, sottomettetela') (Gen., 1, 28). Dio ha collocato l'uomo nel giardino dell'Eden ut operatur, "perché lavori» (Gen., 2, 15). Questo brano precede il racconto del peccato originale; il risultato di quel peccato non è quindi il lavoro, come troppo spesso si dice, ma solamente la condizione più penosa in cui esso dovrà da quel momento in poi essere svolto.
Dopo il peccato, l'uomo si guadagnerà il pane “con il sudore della fronte”.

Con la missione assegnata all'uomo di “sottomettere” la terra si inaugura già il dispiegamento planetario e incondizionato dell'essenza della tecnica moderna, come punto d'arrivo di una metafisica che instaura tra l'uomo e la natura un rapporto puramente strumentale. L’uomo ha la vocazione al lavoro, e il lavoro ha la vocazione a trasformare il mondo; esso rappresenta pertanto una rottura con l'essere, un dominio su un mondo fatto oggetto della signoria umana. Come l'uomo è l'oggetto di Dio, così la terra diventa l'oggetto dell'uomo, che la trasforma assoggettandola alla ragione tecnica. Nel contempo, il lavoro assume un valore eminentemente morale. Dirà san Paolo: "Se qualcuno non vuole assolutamente lavorare, non mangi», frase originariamente enunciata sotto forma di constatazione ("chi non lavora non mangia») ma che ben presto diventa una formula prescrittiva: "Chi non lavora non ha il diritto di mangiare».

Questa visione del mondo, che oggi ci appare cosi familiare, è segnata da una rottura totale con la concezione prevalente nella quasi totalità delle società tradizionali, dove non solo la necessità non detta legge. Ma l'ambito di ciò che è specificamente umano si situa viceversa nel rifiuto di assoggettarsi al regno della necessità materiale. Marshall Sahlins, ad esempio, ha mostrato in maniera convincente che le società "primitive" sono società nelle quali non si lavora mai più di tre o quattro ore al giorno, perché i bisogni vengono volontariamente limitati e al "tempo libero", viene assegnata la priorità rispetto all'accumulazione dei beni.
Nell'Antichità europea, il lavoro viene disprezzato proprio perché è considerato il luogo per eccellenza dell'assoggettamento alla necessità. Questo disprezzo lo troviamo tanto nei greci e nei romani quanto nei traci, nei lidii, nei persiani e negli indiani.

L’idea più comune è che, essendo per definizione deperibile tutto ciò che l'economia produce, il lavoro, motore dell'economia, non è adatto a rappresentare quel che va oltre la semplice naturalità dell'esistenza umana. In Grecia, soprattutto, il lavoro è percepito come un'attività servile che, in quanto tale, è in antagonismo con la libertà, e quindi anche con la cittadinanza. "Un pastore ateniese", nota a questo proposito Alain Caillé, "è un cittadino, a differenza dei ricchi artigiani, non perché è un lavoratore, come penserebbero i moderni, ma al contrario perché è un ozioso, perché dispone di quel tempo libero (skholè) che è la sola prerogativa in grado di rendere gli uomini pienamente umano. "Non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano" scrive Aristotele.

Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della "comodità", rappresentata dall'esistenza di schiavi. Essa esprime in realtà un'idea molto più importante: l'idea che la libertà (come del resto anche l'eguaglianza) non può risiedere nella sfera della necessità, e che vi è autentica libertà solo nell'affrancamento da tale sfera, ovverosia nell'al di là dell'economico. Al limite, come spiega Hannah Arendt, lo schiavo non lavora perché è schiavo, ma è schiavo perché lavora. «Il lavoro era indegno del cittadino", aggiunge André Gorz, "non in quanto era riservato alle donne e agli schiavi; anzi, era riservato alle donne e agli schiavi perché "lavorare significava asservirsi alla necessità". E poteva accettare quell'asservimento soltanto chi, alla maniera degli schiavi, aveva preferito la vita alla libertà e dunque dato prova di spirito servile. L’uomo libero, invece, rifiuta di sottomettersi alla necessità; padroneggia il proprio corpo onde non essere schiavo dei suoi bisogni e, se lavora, lo fa solo per non dipendere da ciò che non controlla, cioè per assicurare o accrescere la propria indipendenza». Per questo motivo, «l'idea stessa di "lavorare" era inconcepibile in quel contesto: il "lavoro", votato alla servitù e alla reclusione nella domesticità, lungi dal conferire un'"identità sociale", definiva l'esistenza privata ed escludeva dall'ambito pubblico quelle e quelli che gli erano asserviti».

Il fatto che questa contrapposizione tra regime della necessità e ambito della libertà si sovrapponga, nell'ideale antico, alla contrapposizione tra sfera privata e sfera pubblica è rivelatore. Secondo Aristotele, l'economia ha a che vedere con l'ambito "familiare". Essa si definisce, in senso proprio, come un insieme di regole di amministrazione domestica (oikos-nomos) , che Aristotele distingue del resto nettamente dalla produzione di beni in vista di uno scambio mercantile, cioè dalla crematistica. ln quanto tale, essa si contrappone alla sfera pubblica, ambito della libertà, il cui godimento e la partecipazione alla quale presuppongono l'«oziosità». La libertà è una faccenda pubblica; non può essere ottenuta nel privato o attraverso di esso.

Non esiste d'altronde all'epoca nessuna parola generica per designare il lavoro. I termini più correntemente utilizzati dai greci (ponos, ergon, poiesis) testimoniano un apprezzamento qualitativamente differenziato delle attività umane, giudicate secondo la conformità alla natura o in base al valore d'uso e alla qualità del prodotto.
"Nel contesto della tecnica e dell'economia antica", sottolinea Jean-Pierre Vernant, "il lavoro appare solo [...] nel suo aspetto concreto. Ogni compito viene definito in funzione del prodotto che punta a fabbricare [...] Non si considera il lavoro nella prospettiva del produttore, come espressione di un unico sforzo umano creatore di valore sociale. Non troviamo quindi, nell'antica Grecia, una grande funzione umana, il lavoro, che copre tutti i mestieri, bensì una pluralità di mestieri diversi, ciascuno dei quali costituisce un tipo particolare di azione che produce la propria opera".

Lo stesso stato d'animo vige a Roma. A proposito del lavoro manuale, Seneca dice che è "privo d'onore e non potrebbe rivestire neppure la semplice apparenza dell'onestà". Cicerone aggiunge che "il salario è il prezzo di una servitù" che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in una fabbrica». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l'opus, l'attività creativa. «Lavorare» (laborare) ha spesso il significato di «soffrire»; laborare ex capite, "soffrire di mal di testa", Viceversa, la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente", bensì l'attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, "negozio")' Quanto alla parola moderna francese "travail", essa viene, come è noto, da tripalium, che in origine era uno strumento di tortura…

Sin dai primi secoli della nostra era, il cristianesimo si è sforzato di lottare contro il disprezzo del lavoro. Gesù e i suoi apostoli erano dei lavoratori manuali. In breve tempo non si conteranno più i santi patroni dei diversi mestieri. Ciononostante, per Secoli sopravviverà l’idea che l'uomo non è fondamentalmente fatto per lavorare, che il lavoro non è altro che una triste necessità e non qualcosa da nobilitare o lodare, e che talune attività sono incompatibili con la qualità di uomo libero. Per reagire a questa idea fortemente radicata, la borghesia, soprattutto a partire dal XVII secolo, moltiplicherà le critiche contro il carattere «improduttivo», e quindi «parassitario», del modo di vita aristocratico.

André Gorz è uno di coloro che hanno colto meglio in che misura ciò che noi oggi chiamiamo lavoro è, nella sua stessa generosità, un'invenzione della modernità. L’idea contemporanea del lavoro", scrive, «appare in effetti solo con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al XVIII secolo, il termine «lavoro" (Iaboul; Arbeit, travai) designava la pena dei servi e dei giornalieri che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito. Gli artigiani, invece, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non "lavoravano", "operavano", e nella loro "opera" potevano utilizzare i "lavoro" di uomini di fatica chiamati a svolgere i compiti grossolani, poco qualificati. Soltanto i giornalieri e i manovali erano pagati per il loro "lavoro"; gli artigiani facevano pagare la propria "opera" in base a un tariffario fissato da quei sindacati professionali che erano le corporazioni e le gilde, le quali proibivano severamente qualsiasi innovazione ed ogni forma di concorrenza. [...] La "produzione materiale" non era dunque, nell'insieme, retta dalla razionalità economica».

Per molto tempo infatti il lavoro, benché riabilitato, è rimasto in una certa misura al riparo da considerazioni puramente utilitarie o mercantili. Nel Medioevo, in particolare, il mestiere ha un valore di integrazione sociale. E innanzitutto un modo di vita, una maniera di stare al mondo, e, in quanto tale, rimane dipendente da un certo numero di atteggiamenti etici, che vanno al di là della sfera della sola materialità ed impregnano nel suo insieme una società nella quale si giustappongono e si incrociano modi di vita organica differenti. I mestieri hanno le proprie regole, le proprie tradizioni. Al loro esercizio sono associate abitudini festive e credenze popolari che contribuiscono a limitare gli effetti della sola ragione economica. Il lavoro speso nella costruzione delle cattedrali è tutto salvo che un lavoro che miri all'utilità, come ha rimarcato, in una pagina molto nota, Georges Bataille: «L’espressione dell'intimità nella chiesa [...] risponde al vano consumo del lavoro: sin dall'inizio la destinazione sottrae l'edificio all'utilità fisica, e questo primo movimento si esprime in una profusione di vani ornamenti. Perché la costruzione di una chiesa non è l'impiego vantaggioso del lavoro disponibile, ma il suo consumo, la distruzione della sua utilità. L’intimità è espressa in modo condizionato da una cosa: purché questa cosa sia in fondo il contrario di una cosa, il contrario di un prodotto, di una merce: un consumo e un sacrificio».

È a questa forma di lavoro che Péguy allude quando evoca la pietà dell'«opera ben fatta», il tempo in cui si cantava mentre si lavorava e si dava nel lavoro il meglio di sé perché in quel lavoro ne andava della realizzazione di se stessi: «Abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare [...] Lavorare era la gioia stessa, la radice profonda del loro essere [...] Esisteva un onore incredibile del lavoro [...] Bisognava che un bastone di sedia fosse ben fatto [...] Non doveva essere fatto bene per il salario o a causa del salario [...] per il padrone o per i conoscitori [...] Bisognava che fosse fatto bene in sé [...] E lo stesso principio delle cattedrali...». Péguy, tuttavia, respinge sia la concezione calvinista, in cui la coazione al lavoro trova la propria legittimità nell'ordine della fede (il lavoro come sottomissione necessaria all'esigenza di salvezza), sia la concezione borghese, che considera lavoro autentico solo quello che non procura alcun divertimento. Egli non fa del lavoro lo scopo supremo dell'esistenza. Pone al di sopra dei compiti necessari alla sussistenza le attività dello spirito che permettono alla personalità di fiorire. Sa che i valori etici e culturali sono superiori alla semplice produzione degli oggetti. Ed è il primo a convenire che il lavoro è radicalmente cambiato da quando è governato solamente dalle leggi economiche dell'offerta e della domanda, della produzione e del mercato.

Con la Riforma, e poi con l'emergere delle teorie liberali, il "valore-lavoro" diventa infatti nel contempo valore dominante e valore in sé. In Locke, ad esempio, la proprietà si fonda sul lavoro e non più sui bisogni, atteggiamento che già giustifica l'appropriazione illimitata (e che Louis Dumont giustamente definisce tipicamente moderna). Nel contempo, la giustizia viene fondata su un diritto di proprietà posto come assoluto, agli antipodi del pensiero tradizionale che rapporta la giustizia all'equità e a relazioni ordinate all'interno di un tutto. La proprietà risalirebbe allo «stato di natura» e sarebbe il frutto del lavoro individuale, cioè dell'appropriazione da parte dell'individuo di tutto ciò che egli sottrae alla natura e prende alla terra. E la nascita di quello che Macpherson chiama l'«individualismo Possessivo».
Il lavoro è non meno fondamentale in Adam Smith. L' introduzione de La ricchezza delle nazioni si apre su queste parole: «Il lavoro annuo di una nazione è il fondo primitivo che fornisce al suo consumo annuale tutte le cose necessarie e comode della vita; e queste cose sono sempre o il prodotto immediato del lavoro, o acquistate dalle altre nazioni assieme a quel prodotto)» Smith aggiunge immediatamente l'idea concomitante che la ricchezza prodotta dal lavoro (le "cose necessarie e comode della vita”) può essere accresciuta dal progresso costante dei metodi di rendimento. E sostiene inoltre che lo scambio fra le ricchezze in tal modo prodotte, scambio il cui unico motore è l'esclusiva ricerca dell'interesse egoistico, consente la diffusione ottimale di tutti i benefici risultanti dalla divisione del lavoro. Il valore si identifica quindi essenzialmente con il lavoro, che ne costituisce in un certo senso la sostanza e ne è l'unico metro di misura, ed è nello scambio mercantile che questo valore si cristallizza. «Il lavoro», scrive Adam Smith, «è la misura reale del valore scambiabile di ogni merce».

Per Smith, il giusto prezzo è dunque quello del mercato: la merce che viene scambiata sul mercato è venduta esattamente per ciò che vale («prezzo naturale»), e il suo valore espresso in denaro rimanda al lavoro che essa rappresenta: «Il lavoro misura il valore, non soltanto di quella parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita, e di quella che si risolve in profitto. E ancora: «Non è con l'oro o con l'argento, ma con il lavoro che tutte le ricchezze del mondo sono state acquistate originariamente; e il loro valore per coloro che le possiedono e che cercano di scambiarle con nuove produzioni è esattamente uguale alla quantità di lavoro che esse li mettono in condizione di acquistare o di ordinare". L’intera opera di Smith si fonda su questo legame fra lo scambio e il lavoro, in cui il primo ingloba il secondo nelle condizioni moderne dell'attività economica ma il secondo forma la pietra angolare dell'intero edificio.

L' uomo pertanto è così «naturalmente» commerciante che è «lavoratore»: «ln tal modo, ogni uomo vive di scambi e diventa una sorta di mercante, e la società stessa è propriamente una società commerciante».
Come scrive Louis Dumont, «insomma, ogni cosa è lavoro e il lavoro è ogni cosa, cosicché noi lavoriamo persino quando non lavoriamo e ci accontentiamo di scambiare».
In effetti, in Smith troviamo due definizioni del valore-lavoro. Nella prima, che è implicita, il valore consiste nella quantità di lavoro necessaria alla produzione di un bene. Nella seconda, che ne deriva ed è altresì la principale, il valore di un bene consiste nella quantità di lavoro che è possibile ottenere in cambio di quel bene (giacché lo scambio consente in un certo senso di "verificare" il valore-lavoro connesso alla sola produzione). In entrambi i casi, ci si trova di fronte ad un'affermazione (o ad un argomento di diritto naturale) priva di ogni valore empirico od operativo. La teoria si limita semplicemente a postulare che l'uomo crea il valore per il tramite del proprio lavoro, che lo fa padrone e sovrano trasformatore della natura. «Questa relazione naturale dell'uomo individuale con le cose», nota Louis Dumont, «si riflette in qualche modo nello scambio egoistico tra uomini che, pur essendo un succedaneo del lavoro, impone ad esso la propria legge e ne consente il progresso. Come nella proprietà di Locke, è il soggetto individuale ad essere esaltato, l'uomo egoista che scambia o lavora, che, nella pena, nell'interesse e nel profitto, lavora [...] al bene comune, alla ricchezza delle nazioni».

Adam Smith tuttavia devia quando, basandosi sulla teoria del valore-lavoro, si sforza di giustificare il sistema dei salari e il gioco del capitale. Egli afferma infatti che il lavoratore deve condividere con il datore di lavoro il prodotto del capitale. Questa affermazione sembra smentire la convinzione secondo cui il valore del prodotto si ricollega alla quantità di lavoro necessaria alla produzione, dal momento che tale quantità è stato solo il lavoratore a produrla. Consapevole della difficoltà, Smith scrive: «La quantità di lavoro comunemente spesa per acquistare o produrre una merce non è più dunque l'unica circostanza sulla quale si deve regolare la quantità di lavoro che quella merce potrà comunemente acquistare, ordinare od ottenere in scambio. E chiaro che sarà dovuta ancora una quantità addizionale per il profitto del capitale che ha anticipato i salari di tale lavoro e ne ha fornito i materiali». Questa «quantità addizionale» rimane però misteriosa. Smith tenta in effetti di assimilare il valore-lavoro inerente ad un prodotto al salario che il lavoratore riceve per quel prodotto, come se il valore del lavoro pagato dal salario fosse identico al valore reale creato da quel lavoro: “Quel che costituisce la ricompensa naturale o il salario del lavoro, è il prodotto del lavoro". Ma questa assimilazione è arbitraria, cosa che Marx non mancherà di rilevare. L’approccio di Smith trova il suo fondamento nell'idea che la diversità delle attività umane possa essere interamente ricondotta a un'unica sostanza, e che sia tale sostanza, nella fattispecie il lavoro, a permettere di trasformare l'eterogeneo in omogeneo, la qualità in quantità. Nel contempo, Smith afferma che ogni lavoro deve essere ('produttivo", cioè diretto verso la produzione di merci utili il cui consumo consentirà a sua volta di produrre nuove cose consumabili. Ne consegue che l'attività non «produttiva» è un non-senso rispetto alla vita delle società.

Questa idea di un lavoro che sarebbe alla base dell'esistenza umana la si ritrova in Ricardo, per il quale "il valore di una merce dipende della quantità relativa di lavoro necessaria alla sua produzione”. I successori di Smith si divideranno in seguito sull'importanza relativa da attribuire rispettivamente al lavoro e allo scambio.
La teoria neoclassica, particolarmente in Walras, cercherà di assimilare valore di scambio e valore d'uso spiegando il primo attraverso la limitazione di una quantità utile, cioè attraverso la rarità. I’idea che il valore debba essere indicizzato esclusivamente sull'utilità non è infatti sostenibile: l'acqua è più utile del diamante ma infinitamente meno costosa; il piano del prezzo e quello dell'utilità sono irriducibili l'uno all'altro. Gli economisti liberali si sforzeranno quindi di prendere contemporaneamente in considerazione l'utilità e la rarità, e i marginalisti svilupperanno un punto di vista che consisterà nel valutare non più la quantità globale di beni, bensì il valore «marginale», assunto dall'ultimo di essi, ma "senza riuscire a operare la sintesi utilità-rarità in "una spiegazione coerente”. Questa teoria finisce infatti con il rendere insolubile il problema della trasformazione del valore in prezzo di produzione.

Il modo in cui ai nostri giorni la parola "lavoro" viene indistintamente applicata a qualunque forma di attività o di occupazione regolare, in diretta contrapposizione con l'ideale ereditato dall'Antichità, riflette piuttosto bene le teorie di cui abbiamo or ora sinteticamente accennato. Operai, dirigenti, artisti, ricercatori, intellettuali, creatori: ormai tutti "lavorano". Anche i contadini si sono trasformati in "produttori agricoli, il che dimostra che i loro compiti quotidiani non definiscono più un modo di vita incomparabile rispetto a tutti gli altri. Nondimeno, questo onnipresente lavoro esige di essere colto e definito con precisione. "Il "lavoro", nel senso contemporaneo", scrive André Gorz, "non si confonde né con i bisogni, ripetuti giorno dopo giorno, che sono indispensabili al mantenimento e alla riproduzione della vita di ciascuno; né con la fatica, per quanto impegnativa possa essere, che un individuo fa per realizzare un compito di cui lui stesso o i suoi sono i destinatari e i beneficiari; né con quel che noi decidiamo di fare di testa nostra, senza tener conto del tempo e della fatica, per uno scopo che ha importanza soltanto ai nostri occhi e che nessuno potrebbe raggiungere al posto nostro. Se ci capita di parlare di "lavoro" a proposito di queste attività del "lavoro domestico", del "lavoro artistico, del lavoro di autoproduzione, lo facciamo assegnando all'espressione un significato fondamentalmente diverso da quello che ha posto il lavoro alla base della propria esistenza, strumento cardinale e nel contempo obiettivo supremo... La caratteristica essenziale di quel tipo di lavoro quello che noi "abbiamo", "cerchiamo", "offriamo" consiste infatti nell'essere un'attività nella sfera pubblica, richiesta, definita, riconosciuta utile da altri e, a questo titolo, da essi remunerata. Grazie al lavoro remunerato (e più in particolare attraverso il lavoro salariato) apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un'esistenza e un'identità sociali (vale a dire una "professione»), siamo inseriti in una rete di relazioni e di scambi nella quale ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferire dei diritti su di loro in cambio dei nostri doveri verso di loro. La società industriale viene intesa come "una società di lavoratori" e, a questo titolo, si distingue da tutte quelle che l'hanno preceduta, perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è anche per quelle e quelli che ne cercano, vi si preparano o ne mancano il fattore di gran lunga più importante di socializzazione».

Perciò, prosegue André Gorz, "la razionalizzazione economica del lavoro non è consistita semplicemente nel rendere più metodiche e meglio adattate allo scopo delle attività produttive preesistenti. Fu una rivoluzione, una sovversione del modo di vita, dei valori, dei rapporti sociali e con la natura, l'invenzione nel senso pieno del termine di qualcosa che non era ancora mai esistito. L’attività produttiva veniva privata del suo senso, delle sue motivazioni e del suo oggetto per diventare il semplice mezzo per guadagnarsi un salario. Smetteva di far parte della vita per diventare il mezzo per "guadagnarsi da vivere". Il tempo di lavoro e il tempo di vivere venivano staccati; il lavoro, i suoi strumenti, i suoi prodotti acquistavano una realtà separata da quella del lavoratore e dipendevano da decisioni estranee. La "soddisfazione di operare" in comune e il piacere di "fare" venivano soppressi a vantaggio esclusivo delle soddisfazioni che il denaro può acquistare [...] La razionalizzazione economica del lavoro avrà pertanto ragione dell'antica idea di libertà e di autonomia esistenziale. Essa dà vita a un individuo che, alienato nel lavoro, lo sarà anche, per forza, nei consumi ed, infine, nei bisogni".

Da alaindebenoist.com

Economia del dono: Il dono come rapporto


Marco Deriu sottolinea in questo suo articolo come nella nostra società l’idea di benessere collettivo sia diventata un’idea sempre più economica e ci invita invece a riscoprire e a pensare al dono come creatore di legame sociale.


Marco Deriu Il cerchio del dono

L’antropologo Louis Dumont ha descritto la nascita della società di mercato come una rivoluzione di valori perché a un certo punto alcuni economisti hanno iniziato a dire che per quello che riguardava la ricchezza economica non valevano più i valori, il senso di solidarietà sociale, l’etica che in qualche modo faceva parte della società, ma che valevano i principi individualisti dell’utilità e del profitto.
Senza che ce ne rendessimo conto, nella nostra società pian piano l’idea di benessere collettivo, sociale, è diventata un’idea sempre più economica. Marcel Mauss, antropologo e sociologo dei primi del novecento, ha scritto un bellissimo libro “Saggio sul dono”, in cui mette in luce che l’invenzione dell’uomo come uomo economico è in realtà una cosa molto recente. Mauss ci racconta di alcune culture da lui studiate che sono organizzate socialmente sulla cultura del dono. Mauss sintetizza il funzionamento di un’economia del dono con tre obblighi: dare, ricevere, restituire.
Queste tre leggi ci dicono che si crea in quel modo un circolo, perché questo dono è come un filo che tesse una relazione tra persone diverse, anche tra persone che non si conoscono. Perché è qualcosa che obbliga nel tempo, che quindi costruisce una relazione nel tempo, ci rende costantemente e in maniera irrinunciabile dipendenti gli uni dagli altri. In tutte le società, dice Mauss, la natura peculiare del dono è di obbligare nel tempo. Il dono è come se creasse una situazione di indebitamento reciproco. Si crea un legame, un senso di solidarietà e alla fine ognuno sa che riceve più di quello che ha dato.
Jacques Godbout, che ha scritto diversi libri sul dono, dice che il dono è ogni prestazione di beni e servizi che viene fatta senza garanzia di avere una restituzione in cambio. Certo c’è l’idea che prima o poi vi sarà restituita, ma non è scontato, è sempre comunque un’offerta. Ma la cosa su cui insistono gli antropologi è che il dono va pensato non come un oggetto che si scambia, ma come un rapporto, come qualcosa che crea legame sociale.
Per noi occidentali il dono verso gli altri paesi è semplicemente il trasferimento di soldi, di risorse o di beni. Noi concepiamo il dono soltanto come dare e ci dimentichiamo degli altri due aspetti, cioè del ricevere e del restituire, è come se interrompessimo quel cerchio e quel cerchio è proprio quello che crea la relazione. Essendo incapaci di ricevere entriamo in relazione con individui che definiamo poveri, cioè persone che possono solo ricevere.

Decrescita felice: Maurizio Pallante,per un mondo di beni e non di merci


Maurizio Pallante, il più noto esponente del Movimento per la Decrescita Felice in Italia, accenna sul finire di questo interessante articolo anche alla diffrenza far baratto, dono e regalo consumistico...



Per un mondo di beni e non di merci
di Maurizio Pallante

Sostenere la necessità di una decrescita economica e produttiva, descriverne i vantaggi in termini di felicità individuale, di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque e serene tra gli individui e tra i popoli, è un passaggio obbligato nella costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili problemi che il sistema economico industriale, fondato sulla crescita illimitata della produzione di merci, pone all'umanità e a tutte le specie viventi. Ma è come voler parlare a voce in un ambiente dove un potente sistema d i amplificazione sostiene contemporaneamente il concetto opposto. Non si viene ascoltati non solo perché si sostengono posizioni così contro corrente da essere respinte a priori dai più, ma anche perché non si riesce nemmeno a far udire la propria voce. […]
Ciò nonostante occorre ribadire in tutte le sedi i rapporti di causa-effetto tra la crescita del Pil e l'esaurimento di risorse vitali, l'incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale. Ma l'analisi e la denuncia non bastano. Occorre contestualmente effettuare nella propria vita scelte che comportano decrementi, anche infinitesimali, del Pil.
Innanzitutto perché se si è convinti che la decrescita sia un elemento indispensabile per una vita più felice sarebbe sciocco non cominciare a praticarla subito. In secondo luogo perché se le riflessioni sulla necessità della decrescita si sviluppano da una pratica concreta e sperimentata non sono soltanto speculazioni teoriche e diventano più credibili. Infine perché i vantaggi derivanti dalla loro pratica non si limitano all'ambito individuale, alla costruzione di una nicchia in cui rifugiarsi da un mondo che va in direzione opposta e difendersi dalle sofferenze che genera, ma acquistano il valore di una proposta politica. Nella ossessiva ripetitività e passività dei comportamenti consumisti massificati acquistano visibilità e luminosità, manifestano i loro vantaggi e, di conseguenza, possono suscitare ripensamenti: "Se lo stanno facendo alcuni, per quale motivo non posso farlo anche io?".
Come si può praticare la decrescita nelle proprie scelte di vita?
Innanzitutto chiarendo a se stessi cosa è e come si realizza la crescita del Pil.
A differenza di quanto comunemente si crede, la crescita del Pil non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico, ma la crescita delle merci scambiate con denaro. Non sempre le merci sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa – qualcosa che offre vantaggi – che invece non pertiene al concetto di merce. Se si fanno le code in automobile aumenta il consumo della merce carburante, quindi si accresce il Pil, ma si ha uno svantaggio, una disutilità. Viceversa, non necessariamente i beni sono merci, perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o per donarla. I prodotti del proprio orto e del proprio frutteto autoconsumati non sono merci e, pertanto, non fanno crescere il Pil, ma sono qualitativamente superiori agli ortaggi e alla frutta prodotta industrialmente e comprata al supermercato. La cura dei propri figli o l'assistenza dei propri vecchi fatta con amore è qualitativamente molto superiore alla cura che può prestare una persona pagata per farlo. Ma questa attività prestata in cambio di denaro fa crescere il Pil, l'altra, donata per amore, no.
Fare scelte esistenziali nell'ottica della decrescita significa quindi ridurre la quantità delle merci nella propria vita. A tal fine si possono percorrere due strade:
1. ridurre l'uso di merci che comportano utilità decrescenti e disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale, che causano ingiustizie sociali;
2. sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con beni.
La prima è la strada della sobrietà. La seconda è la strada dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili, basati sul dono e la reciprocità.
Non consumare merci
La sobrietà non è soltanto una virtù di cui il sistema economico e produttivo basato sulla crescita del Pil ha voluto cancellare accuratamente ogni traccia perché non se ne serbasse nemmeno la memoria nel giro di una generazione, ma è, soprattutto una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero.
Chi lavora cinque mesi all'anno per acquistare e mantenere un'automobile che gli serve ad incolonnarsi ogni giorno lavorativo due volte al giorno per ore sulle tangenziali nel tragitto casa-lavoro, e ogni giorno festivo […] nel tragitto casa-località di villeggiatura, è un consumista stupido, che si costringe a vivere una vita insopportabile e ben più infelice di una persona che lavora di meno e guadagna di meno, ma proprio per questo non ha bisogno di soldi da spendere in automobili, benzina, auto strade, compensazioni illusorie nelle località di vacanza dello stress accumulato nella settimana lavorativa. […]
Autoproduci i beni
La sobrietà comporta una riduzione della crescita del Pil attraverso una riduzione del consumo di merci, ma non consente una emancipazione dalla dipendenza assoluta nei loro confronti. E la sempre maggiore dipendenza dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore incapacità di autoprodurre beni. Per aver bisogno di comprare tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare un consumista senza alternative. La condizione di non saper produrre nessun bene, o quasi, nei paesi industrializzati è ormai generalizzata. Oggettivamente costituisce un enorme depauperamento culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione dell'uomo dai limiti della natura. […]
Nell'arco di una generazione alcuni beni di uso comune, come lo yogurt, il pane, la passata di pomodoro, le marmellate, le verdure sottolio e sottaceto, non si sono più fatti in casa e sono stati sostituiti da prodotti comprati al supermercato. L'autoproduzione di frutta e verdura è stata sostituita con prodotti agroalimentari carichi di veleni e senza sapore. Un processo disastroso in cui si sommano perdita di qualità e perdita di conoscenze, ma che è stato considerato un progresso perché ha comportato una crescita quantitativa della produzione di merci e del Pil . […]
Economia del dono
L'autoproduzione di beni e servizi può essere potenziata da scambi non mercantili fondati sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono anche a rafforzare i legami sociali. Il dono e la reciprocità […] non devono essere confusi con i regali acquistati e donati in un numero di circostanze fittizie crescenti, create appositamente per potenziare il consumismo, né possono essere semplicemente ridotti al baratto (scambio di prodotti senza l'intermediazione del denaro), ma consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di tempo, di professionalità, di conoscenze, di disponibilità umana. […]
Maggiore è l'incidenza degli scambi fondati sul dono e la reciprocità, minori sono gli scambi mercantili.
[…]
Può mettersi in moto un processo moltiplicatore con effetti significativi sulla decrescita del Pil e, forse, anche sulla felicità individuale di molte persone. Non è forse questo il significato più profondo della politica?

Economia del dono: Genevieve Vaughan


Genevieve Vaughan è forse la più importante teorica del paradigma del dono. La sua visione, che identifica questo paradigma con il modo di essere della donna, non è sempre di facile comprensione, ma offre senz'altro degli ottimi spunti e questa bellissima immagine: "Noi abbiamo bisogno di cura e gentilezza. Quando troviamo che l'85 per cento di carcerati sono stati vittime di abusi da bambini, dobbiamo capire che la vera questione non e' la giustizia"



L'Economia del dono
Di Genevieve Vaughan

Oggi nel mondo coesistono due paradigmi economici di base, logicamente contraddittori ma anche complementari. Uno è visibile, l'altro invisibile; uno fortemente valutato, l'altro sottovalutato. L'uno è connesso agli uomini, l'altro alle donne. Quello che dobbiamo fare è dare valore a quello connesso alle donne per causare uno spostamento fondamentale dei valori con cui gestiamo le nostre vite e le nostre politiche.

Il mio primo approccio all'idea del dono, come principio economico di base e come principio di vita, è stato quando lavoravo sul linguaggio e la comunicazione. Più tardi, come femminista, ho capito che il mio lavoro domestico gratuito e il mio lavoro di madre nel crescere i figli era in effetti un dono, e che le donne di tutto il mondo lo praticavano.

L'attuale sistema economico, che dicono sia naturale e troppo diffuso per poterlo cambiare, si basa su una semplice operazione a cui gli individui partecipano a più livelli e in momenti diversi. Questa operazione è lo scambio, che si può descrivere come un dare per ricevere. La motivazione alla base dello scambio è orientata all'egoismo, poiché ciò che è dato ritorna sotto altra forma al donatore per soddisfare i suoi bisogni: soddisfare i bisogni di un'altra/o è un mezzo per soddisfare il proprio bisogno. Lo scambio impone l'identificazione delle cose scambiate, come pure la loro misurazione e la dichiarazione della loro equivalenza fino a soddisfare gli scambiatori nella misura in cui nessuno dà più di ciò che riceve. Quindi lo scambio richiede più visibilità; attrae attenzione, sebbene sia operato tanto spesso che la sua visibilità è diventata luogo comune. Il denaro entra nello scambio a prendere il posto dei prodotti e ne riflette la loro valutazione quantitativa.

Quella che sembrerebbe una semplice interazione umana, lo scambio, dato che viene operata così spesso, diventa una sorta di archetipo o calamita per altre interazioni umane, rendendo se stesso – e qualsiasi cosa gli assomigli – apparentemente normale, mentre tutto il resto è follia. Per esempio, si parla di scambio di amore, conversazioni, sguardi, favori, idee.

Ma esiste anche un diverso tipo di similitudine dello scambio alla definizione linguistica: la definizione opera una mediazione definendo se un concetto appartiene o meno ad una determinata categoria, così come mediante la monetizzazione di una determinata attività se ne definisce l'appartenenza alla categoria lavoro o meno. La stessa visibilità dello scambio è auto-affermativa, mentre altri tipi di interazione sono rese invisibili o inferiori per contrasto o per descrizione negativa. Ciò che è invisibile sembra essere senza valore, mentre ciò che è visibile viene identificato con lo scambio che verte intorno ad un certo tipo di valore quantitativo. Inoltre, dato che viene asserita un'equivalenza tra ciò che diamo e ciò che riceviamo, sembra che chiunque possiede di più abbia prodotto tanto o dato tanto ed è, quindi, in qualche modo, più di quelli che possiedono meno. Lo scambio mette al primo posto l'io e gli permette di crescere e svilupparsi in modi che enfatizzano comportamenti competitivi ("prima io") e pattern gerarchici. Questo io non è una parte intrinseca dell'essere umano ma un prodotto sociale che deriva dal tipo di interazioni umane a cui è connesso.

Il paradigma alternativo, che è nascosto – o quantomeno mal identificato – è quello della cura per l'altro (nurturing), ed è orientato verso l'altro (other-oriented). Esso continua ad esistere perché si basa sulla natura degli infanti che sono dipendenti ed incapaci di ripagare il donatore. Se i loro bisogni non vengono soddisfatti unilateralmente essi soffriranno e moriranno. La società ha allocato il ruolo di curatrici alle donne poiché noi gli diamo vita e abbiamo il latte per nutrirli.

Poiché una grande percentuale di donne si prende cura dei bambini piccoli, esse vengono dirette ad avere un'esperienza che va al di là dello scambio. Ciò stabilisce un orientamento all'interesse verso l'altra persona. I premi e le punizioni coinvolti in questa relazione hanno a che fare con il benessere dell'altro. La nostra soddisfazione ci viene dalla loro crescita e felicità, non solo dalla nostra. Nel migliore dei casi, ciò non comporta nemmeno il nostro impoverimento o esaurimento. Dove c'è abbastanza noi possiamo nutrire gli altri abbondantemente. Il problema è che di solito siamo in presenza di scarsità di risorse, la quale viene creata artificialmente dal sistema per poter mantenere il controllo, così che l'orientamento verso l'altro diventa difficile e ci esaurisce. Di fatto lo scambio impone uno stato di scarsità, perché se i bisogni sono abbondantemente soddisfatti nessuno è costretto a rinunciare a qualcosa per poter ricevere ciò di cui ha bisogno.

Si dice che attualmente la terra produca abbastanza risorse per nutrire tutti abbondantemente. Tuttavia ciò non può essere fatto sulla base del paradigma dello scambio. Ma è vero che neanche il paradigma dello scambio e l'egoismo che esso sostiene possono continuare in una situazione di abbondanza e libero dono. Ecco perché è stata creata la scarsità a livello mondiale con le spese per gli armamenti ed altro spreco di risorse: 17 miliardi di dollari darebbero da mangiare all'intera popolazione della terra per un anno, mentre nel mondo sprechiamo questa somma ogni settimana per spese militari, creando così la scarsità necessaria perché possa sopravvivere e convalidarsi il paradigma dello scambio.

Ma se noi identifichiamo il paradigma del dono con il modo di essere della donna, vediamo che esso è già diffuso, poiché le donne costituiscono la maggioranza della popolazione. Anche molti uomini in qualche misura praticano il paradigma del dono. Nelle economie non capitalistiche, come le economie indigene, si trovano spesso importanti pratiche di dono e varie ed importanti leadership femminili.

Per esempio, io credo che molti dei conflitti tra donne e uomini che sembrano differenze personali, in realtà siano differenze nel paradigma che noi stiamo usando come base del nostro comportamento. Le donne criticano il grande ego degli uomini e gli uomini dicono alle donne che sono irrealistiche e troppo generose. Ognuno cerca di convincere l'altro a seguire i propri valori. Di recente molte donne hanno cominciato a seguire il paradigma dello scambio, cosa che ha il vantaggio immediato di liberarle dalla bieca servitù economica – ed anche il vantaggio psicologico che è dato dalla monetizzazione che definisce la loro come un'attività di valore. Pero' la servitu stessa e' causata dal paradigma dello scambio.

Quando le persone passano da un paradigma all'altro c'è probabilmente una rimanenza del paradigma precedente, così che le donne che intraprendono lo scambio spesso mantengono le caratteristiche di cura mentre gli uomini che cominciano a praticare il dono rimangono più orientati all'egoismo. Questo lo ritrovo nel caso delle religioni, nelle quali è l'uomo a legiferare sull'orientamento verso l'altro, spesso seguendo il paradigma dello scambio, ed escludendo e squalificando le donne. Infatti, essi fanno apparire l'altruismo così santo che diventa impraticabile per i più ( mentre ignorano che esso è spesso la norma per le donne). È come la sindrome della madonna-puttana in cui la donna è sopravvalutata o sottovalutata, adorata o disprezzata. L'altruismo viene fatto sembrare fuori dalla nostra portata, e spesso sembra che comporti un sacrificio di sé (per via della scarsità che induce l'economia dello scambio), oppure viene visto come uno spreco; le religioni patriarcali fanno la carità in cambio dell'anima.

Il dono che viene dal modello dello scambio non funziona, come si può vedere al livello degli aiuti tra nazioni. Ci sono obblighi imposti dalle nazioni donatrici che depauperizzano le nazioni riceventi. Un altro aspetto del conflitto tra paradigmi è che il lavoro domestico o altro lavoro non-monetizzato di donne viene visto come inferiore o come non-lavoro; valorizzarlo sovverte il paradigma dello scambio. Forse il lavoro delle donne viene pagato di meno per mantenerle in uno stato di dono depauperato. Ciò che occorre fare non è di pagare di più il lavoro alle donne, ma di cambiare totalmente i valori, con la consequente squalifica della monetizzazione e dello scambio.

Ma in che modo un paradigma non-competitivo e di cura può competere con un paradigma competitivo? Esso è sempre svantaggiato perché la competizione non è un suo valore né la sua motivazione. Tuttavia è difficile non competere senza perdere, convalidando così l'istanza dell'altro. Un altro grande problema è che se la pratica di soddisfare un bisogno è gratis, non si dovrebbe ricorrere ad un suo riconoscimento. Ma proprio non richiedendone riconoscenza, le stesse donne rimangono inconsapevoli del fatto che le caratteristiche delle loro azioni e dei loro valori appartengono ad un paradigma.
È chiaro che il paradigma orientato all'ego è pernicioso. Il suo risultato è il potere dei pochi ed il depauperamento, l'esaurimento, la morte e l'invisibilità dei più. Dato che l'ego è un prodotto sociale, in qualche modo artificiale, esso deve essere continuamente ricreato e confermato. Ciò può essere fatto anche attraverso la violenza contro l'altro, inclusa la violenza sessuale. Chiunque sia nella posizione dell'altro viene ignorato, negato, escluso e degradato per confermare la superiorità e l'identità degli ego dominanti. Vorrei evitare qualsiasi discorso morale su questo punto (infatti, io vedo il senso di colpa come scambio interiorizzato, di chi si prepara a ripagare per lo sbaglio commesso) e vedere semplicemente i problemi come conseguenze logiche e psicologiche dei paradigmi. La vendetta e la giustizia impongono una resa dei conti. Ma noi abbiamo bisogno di cura e gentilezza. Quando troviamo che l'85 per cento di carcerati sono stati vittime di abusi da bambini, dobbiamo capire che la vera questione non e' la giustizia. Come la carità, anche la giustizia rende umano lo scambio solo abbastanza da non farlo cambiare. Abbiamo bisogno di un mondo basato sul dare e a favore del dono non della retribuzione.

Economia del dono: le esperienze italiane del dono e del baratto



Nel seguente articolo di Monica Di Bari, vengono presentate alcune esperienze italiane che vanno nella direzione di una nuova economia. Interessante anche il riferimento alla rete informale di solidarietà dell’Africa Sub Sahariana.


Barattare, donare, riciclare
di Monica Di Bari

Donare: dare ad altri spontaneamente e senza compenso.
Il dono non è sterile elemosina o un regalo studiato per ricevere in cambio una contropartita diretta. Donare significa far fronte all’esigenza di un singolo che è comunque parte di un gruppo, nella consapevolezza che prima o poi un’esigenza simile toccherà al donatore stesso.
Ogni seconda domenica del mese nella località di Ozzano dell’Emilia, alle porte di Bologna, è possibile barattare, donare e riciclare. Si tratta di un mercatino del dono e del baratto, un’iniziativa nata dalla collaborazione tra la Cooperativa Dulcamara e l’Associazione Amici della Terra di Ozzano. Negli ultimi mesi, in molte città italiane sono state proposte esperienze simili: luoghi in cui effettuare scambi non monetari hanno aperto le porte alla cittadinanza. Un esempio è l'iniziativa del baratto svoltasi a Roma il 21 aprile e promossa da Reti di Pace: un mercato in cui, senza l'ausilio della moneta, sono stati scambiati CD musicali, libri, abiti e altri oggetti.
Dal Nord al Sud della penisola troviamo non solo spazi sociali concreti, ma anche sistemi di scambio non monetari, tra i quali il più diffuso è la Banca del Tempo.
Nella società dei consumi, dove la grande distribuzione organizzata assume un ruolo sempre più totalizzante, un bisogno consapevole e diffuso è quello di riscoprire gli spazi di socialità, dove lo scambio dei beni sia alla base della relazione umana.
Barattare è un primo passo: storicamente, scambiare o barattare due oggetti presuppone un intento commerciale equo per entrambe le parti; ma non basta: donare è un’azione dal significato sociale e antropologico ancora più complesso.
Non si può parlare di dono senza far riferimento al celebre Essai sur le don di Marcel Mauss: l’antropologo individua, alla base del dono e della comunicazione tra singoli e gruppi, il principio di reciprocità, strutturato nel concetto tripartito del dare, ricevere e ricambiare. Il dono non è sterile elemosina o un regalo studiato per ricevere in cambio una contropartita diretta; donare significa far fronte a un’esigenza di un singolo che è comunque parte di un gruppo, nella consapevolezza che prima o poi un’esigenza simile toccherà al donatore stesso; quest’ultimo, a sua volta, può contare sull’appoggio dell’intera comunità. Reciprocità può voler dire che chi ha dato non ottiene necessariamente una restituzione dal suo stesso beneficiario, ma dalla comunità stessa o dal sistema; d’altro canto colui che riceve è chiamato a restituire anche a un terzo, estraneo allo scambio originario.

La rete informale di solidarietà nell’Africa Sub Sahariana
Nell’Africa sub sahariana la reciprocità del dono è regola sociale e garanzia di un singolo in quanto membro di una comunità. Nel saggio L’Altra Africa, tra dono e mercato Serge Latouche distingue la povertà occidentale dalla sfortuna africana: in Africa il concetto di povertà implica quello di solitudine e l’isolamento dalla comunità comporta l’esclusione dagli scambi; nelle principali lingue africane le parole che designano il concetto di “povero” sottendono il significato di “orfano”. Un orfano, senza uno o entrambi i genitori, non può fare affidamento sulla rete di solidarietà della famiglia allargata, determinata in base al vincolo di parentela.
La capacità di costruire una rete di persone sulle quali poter contare è determinante per la sopravvivenza del singolo e della comunità; in base a questo obiettivo la capacità di memorizzare l’identità delle persone è stupefacente. Ciascuno deve conoscere ogni membro della rete, che può contare centinaia di persone: nome, condizione, storia individuale e posizione familiare determinano la conoscenza e gli scambi come relazioni umane.

Il dono, il baratto e la solidarietà nella civiltà contadina
Anche nelle comunità contadine dei nostri nonni ritroviamo il principio della reciprocità: ancora oggi nei piccoli contesti rurali i beni prodotti, se in eccesso, sono scambiati attraverso il dono reciproco. Le reti di scambio non monetario hanno sempre fatto parte della civiltà contadina: frutta, verdura, uova venivano donati a un membro della comunità senza aspettarsi una contropartita diretta. Il beneficiario a sua volta, contando su una produzione abbondante, ne donava una parte all’interno della comunità. Anche il baratto era alla base dell’organizzazione economica: in questo caso due individui potevano scambiare qualità diverse di semi, di vitigni e razze animali. I nuclei familiari godevano di una dimensione allargata che garantiva, in caso di necessità, l’assistenza agli anziani e la cura dei bambini. Maurizio Pallante ne La Decrescita Felice sottolinea come in questi contesti la dinamica del dono e contro-dono di tempo, capacità professionali, disponibilità umana, attenzione e solidarietà fosse alla base dei legami sociali. La stessa parola comunità è composta dalla preposizione cum che significa ‘con’ e indica un legame e dal nome munus che significa ‘dono’.
Recuperare, nella vita quotidiana, il senso del dono e della solidarietà tradizionale significa riappropriarsi dei valori e delle risorse realmente necessari alla comunità; è la base per ripensare un altro tipo di economia in cui lo scambio monetario e non monetario, il baratto e il dono, possano ridisegnare le reti sociali della solidarietà umana. Questo percorso, astratto in apparenza, parte dalla coscienza individuale dei singoli e trova possibilità di confronto nelle esperienze collettive: nei mercati per il baratto o il dono e nelle reti per gli scambi non monetari.

Economia del dono: Alain Caillé




Il sociologo francese Alain Caillé ripropone in questa intervista la questione del «dono», la critica all'homo oeconomicus, all'utilitarismo esasperato, alla visioni degli esseri umani come "animali interessati"... E ribadisce un concetto chiave: il dono è un gesto decisivo per lo sviluppo della società umana.



Contro la logica dello sfrenato utilitarismo che oggi sembra trionfare in molti campi prende forma una forte opposizione da parte della filosofia e dell’antropologia.
Ad alzare il vessillo della rivolta è stato, nel 1992, il sociologo francese Alain Caillé con il suo Lo spirito del dono – scritto a quattro mani con il collega canadese Jacques T. Godbout – un libro tradotto in cinque lingue che gli ha assicurato fama internazionale.

Ma Caillé aveva già dato fuoco alla santabarbara con la "Critica della ragione utilitaristica" del 1989, che assestava un primo colpo all’assioma dell’egoismo, secondo il quale in ogni azione e relazione sociale non si può che mirare al soddisfacimento del proprio interesse. Ora, in un’epoca ancora dominata dal consumismo, il messaggio di Alain Caillé si rivolge ai sudditi dell’impero neoliberistico: «Quanta parte delle attività dell’uomo, sia personali che sociali, deve essere impiegata per soddisfare il puro e semplice utilitarismo, e quanta invece dovrebbe essere dedicata a produrre significati, pensieri, a dare un senso alla vita, cioè al simbolico, al rituale, al politico, insomma al non utilitario?».

L’individuo obbedisce automaticamente al sempre più pervasivo modello dell’homo oeconomicus, imposto da certa pubblicità: massimizzare utilità e piacere, respingere senza indugio non solo ciò che fa soffrire ma anche, e soprattutto, ciò che non è utile. Eppure – obietta Caillé – uomini e donne non sono venuti sulla terra per agire da «animali interessati», che desiderano soltanto avere sempre più cose; anche se non lo sanno, l’oggetto principale della loro brama non è comunque la ricchezza quanto «l’essere riconosciuti».

Alla 14° sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, apertasi ieri in Vaticano, la nuova filosofia e sociologia, incardinata sul paradigma del dono e dell’altruismo, è stata illustrata dai suoi massimi rappresentanti: Alain Caillé, professore all’Università di Parigi Nanterre e Jacques T. Godbout, professore emerito al National Institut of Scientific Research dell’università di Montreal.


Intervista:

Professor Caillé, in un mondo soggiogato dall’etica dell’utilitarismo, la rivendicazione di una nuova economia, fondata sul dono e sull’altruismo, non sembra velleitaria?
«La gente crede che il dono e la generosità siano inutili fronzoli, sentimenti polverosi gettati in soffitta. Questa idea viene fatta valere con un bombardamento quotidiano dal modello economico dominante, secondo il quale non solo il mercato e gli scambi monetari ma anche l’apprendimento, il matrimonio, la fede religiosa, l’amore e l’odio, la giustizia e il delitto, sono regolati dalla logica egoistica. E invece il dono ha un ruolo oggi come lo aveva nel passato delle società umane. La grande scoperta è merito dell’antropologo Marcel Mauss, nipote ed erede intellettuale di Emile Durkheim, uno dei fondatori della sociologia. Nel 1923-1924, Mauss pubblica i risultati della sua indagine sulla pratica del dono cerimoniale. Però lui non si riferiva soltanto alle società arcaiche e primitive. La pratica di dare, prendere e ricambiare, cioè il principio della reciprocità, è stata posta da Claude Lévi-Strauss alla base della ricerca antropologica».

Sarà duro il lavoro di persuasione per la nuova sociologia.
«Dal 1982 c’è un Movimento Anti Utilitaristico nelle Scienze Sociali, che prende nome da Mauss. E’ nata una scuola di pensiero la quale ha prodotto una rivista (che ho diretto); la tesi del movimento è stata illustrata in oltre mille articoli e più di trenta libri. L’idea che ne scaturisce è che bisogna dare meno importanza all’ homo oeconomicus e più spazio all’homo politicus, all’homo ethicus e all’homo religiosus ».

Che cosa ha scoperto, in pratica, l’inchiesta di Marcel Mauss?
«Ha dimostrato che i doni, nelle società primitive, non avevano alcun valore materiale. Contavano come simboli della relazione sociale, e comunque non avevano nulla a che vedere con la carità. Talvolta esprimevano anche spirito aggressivo e agonismo. Il dono è un simbolo e rispetta la legge della reciprocità. È la circolazione di un debito che può essere invertita ma non fermata».

Che cosa resta del dono arcaico nella società di oggi?
«Prendiamo il caso dei donatori di sangue o di organi. Fanno un dono che potenzialmente è destinato a tutti, alla famiglia, ai vicini, ai concittadini come agli stranieri. L’obbligo di dare rimane una regola della socialità primaria. Esprime amore o amicizia? Secondo me esprime simpatia o meglio quella che io chiamo aimance, cioè più esattamente 'l’interesse per gli altri'. Si tenga conto che la teoria dell’estremo utilitarismo era stata già emendata dalla corrente anglosassone della filosofia morale. L’individuo persegue la duratura soddisfazione del suo interesse personale se riesce anche a massimizzare la soddisfazione degli interessi del maggior numero di persone. Un egoismo altruistico».

Come convertire l’egoista in altruista?
«C’entra la costruzione dell’identità, individuale e collettiva. L’egoista non vuole tanto possedere, quanto 'essere riconosciuto'. Intendiamoci: anche il dono può essere interessato ma le indagini sociologiche mostrano che 'è interessante essere disinteressati'. Il disinteresse paga».

Lo studioso, che partecipa al summit in Vaticano sul bene comune: «Ormai è chiaro che i gesti gratuiti sono un dato decisivo nello sviluppo delle società. Bisogna uscire dall’utilitarismo esasperato»

(Luigi Dell'Aglio - 03/05/2008 Avvenire)

Economia del dono: Uomo lucrativo e uomo comunitario


Questo articolo di Enrico Caprara, dopo aver messo in luce l'effetto devastante di un atteggiamento orientato ad ottenere il massimo nelle relazioni interpersonali, cedendo il meno possibile (il lucrismo), ci apre alla possibilità di un altro tipo di relazione. La relazione comunitaria, basata sul dono gratuito...


Enrico Caprara - Uomo lucrativo e uomo comunitario

Alla domanda – "Che tipo è, in fin dei conti, l' uomo contemporaneo?" si trova spesso la risposta che egli sia uomo economico. Ciò non è senza dubbio falso. L' economia ha come sappiamo assunto, nella nostra esistenza, un ruolo di centralità e preponderante. Tutto si fa perchè l' economia vada bene – tutto si dice andar bene se l' economia va bene.

Ma pure, dentro questa caratterizzazione di economicità dell' uomo contemporaneo, io credo si possa specificare un po' meglio. Si potrebbe vedere, per esempio, l' economico uomo d' oggi come uomo utilitaristico e come uomo lucrativo.

Sull' aspetto dell' Utilitarismo – l' aspetto cioè della tensione al soddisfacimento in senso materialistico-quantitativo – non mi dilungo: rinvio magari alle considerazioni nel mio scritto Contro quale Modernità, in particolare il paragrafo Le moderne ideologie dell' Utilitarismo, del Progressismo, dello Scientismo.

Noterei, ad ogni modo, che la tendenza utilitaristica potrebbe dirsi caratterizzante l' ambito "psicologico" dell' uomo contemporaneo; mentre la tendenza lucrativa – che in questo scritto vorrei specificamente considerare – è più propriamente riferibile all' aspetto "sociologico" dell' esistere nel nostro tempo.

Il lucro, ovvero il guadagno. Una certa relazione tra i due aspetti – Utilitarismo e Lucrismo (introduco questo secondo termine d' uso non comune) – risulta credo ben evidente. Poichè l' uomo d' oggi è utilitaristico, nel senso che ricerca il possesso, il godimento, della massima quantità materiale, nelle sue relazioni sociali egli è lucrativo, nel senso che ricerca per sè il massimo guadagno – cioè la massima acquisizione di quantità materiale con la cessione della quantità minima.

Io voglio qui intendere – lo manifesto allora esplicitamente – il lucro non come guadagno commerciale. Non cioè come il guadagno che si realizza in un doppio scambio, in una compra-vendita, allorchè prima si cede denaro contro un bene, poi si cede il bene contro denaro, ottenendo più denaro di quanto si aveva inizialmente – la differenza essendo appunto il guadagno. Voglio intendere, piuttosto, un atteggiamento lucrativo, consistente nel disporsi a qualunque scambio con l' idea di ottenere il massimo cedendo il minimo possibile, ed il guadagno sarà allora una certa riuscita di questa operazione, il fatto di avere molto in cambio di poco.

Il mio giudizio verso questo atteggiamento umano è, senza dubbio, negativo. Se esso infatti risulta, evidentemente, svantaggioso e rovinoso per la parte soccombente, per chi si ritrova a dar molto in cambio di poco, il Lucrismo non è alla fin dei conti un “buon affare” neanche per l’ affarista riuscito, che, realizzate le sue spoliazioni, quando avrà fatto intorno a sè il deserto, dovrà comunque viverci nell’ assedio dei diseredati e della propria cattiva coscienza.

Ma pure nel caso in cui, fra due attori lucrativi “che sappiano il fatto loro”, si ottenga uno scambio paritario, questo avverrà solo a seguito di un enorme dispendio di energie, per attuare ogni possibilità tecnica di profitto nello scambio, e ogni possibile difesa dal profitto altrui. A ciò si dovrebbe aggiungere poi che la mentalità lucrativa, una volta preso possesso della psiche umana, non risparmia nessun momento e aspetto della vita: continuamente si architettano occasioni di scambio dove poter lucrare; ogni situazione e relazione della propria esistenza, anche quelle di natura affettiva più che concreta, si pone nella prospettiva di un dare-avere sperabilmente lucrativo – uno scenario di miseria spirituale, la cui risultanza di malessere sembra piuttosto evidente.

Voglio rimarcare dunque il fatto che lucro viene qui inteso come una certa disposizione nel rapporto interpersonale, e non come sovrappiù in una operazione di commercio.
Ed è questa accezione di Lucrismo che, a mio parere, svela compiutamente l’ immoralità e il maleficio, ciò che non è invece considerandolo nel senso del guadagno commerciale. Quest’ ultimo potrebbe anche avere – dentro un certo quadro sociale di riferimento – una sua giustificazione. Il ricarico operato da un commerciante tra il prezzo di acquisto e quello di vendita, può giustificarsi dal suo lavoro di rendere disponibile il bene, per esempio da un luogo in cui lo si trova facilmente ad un altro luogo.

E’ chiaro, d’ altra parte, che il significato di Lucrismo come io l’ ho inteso risulta ben connesso a ciò che, oggi, si evoca continuamente come “il Mercato”. Il Mercato: ovvero tutto si compra e si vende – e in queste compravendite, il venditore cerca di spuntare il massimo prezzo, il compratore il minimo. Tuttavia, Mercato è un termine ancora piuttosto ampio. Esso potrebbe anche indicare, per esempio, il solo fatto di radunare insieme, porre in relazione compratori e venditori, laddove i prezzi rimangano però non contrattati ma prestabiliti, come accadeva piuttosto frequentemente nel passato, e in qualche caso accade ancora – oramai raramente – oggi.

Ritengo sia più opportuno, quindi, mettere a fuoco un termine e un concetto come quello di Lucrismo, che nel suo riferirsi a un atteggiamento personale – sia pure in ambito sociale – tende a ben evidenziare ciò che di drammatico esistenzialmente da lì deriva. Lucrismo che vuol significare – lo ripeto ancora – la tendenza umana a ricercare in qualunque ambito lo scambio, e nel contesto dello scambio a ricercare il massimo ottenimento con la minima cessione.

C' è, a questo punto, una questione fondamentale che richiede di essere considerata. Il Lucrismo, l' atteggiamento lucrativo, che noi oggi vediamo diffuso generalmente, è naturale all' uomo? In tutte le epoche passate, in tutti i luoghi del pianeta, magari in forme diverse, l' uomo è sempre stato ed è sempre lucrativo? Lo sarà inevitabilmente anche nel futuro?
La mia risposta è no. C' è un filone di studi sociologici, economici, antropologici, che dà testimonianza di un convivere umano non improntato a quell' orientamento, ma invece ad altri valori. Una figura di riferimento, a questo riguardo, è certo quella dell' economista "eretico", di origine ungherese, Karl Polanyi (1886-1964).[1]

Ma, soprattutto, il mettere alla prova la realtà delle cose, dei comportamenti umani, dei propri comportamenti, rispetto alla nostra capacità di valutazione più profonda, autentica, spirituale, sembrerebbe svelarci altre e più proficue opzioni esistenziali. Del resto, chi abbia avuto, come me, la fortuna di conoscere persone di un tempo storico non poi distante dal nostro, persone nate verso l' inizio del novecento, specie in ambienti non metropolitani, avrà potuto constatare l' effettività di un diverso orientamento, in sostanza non lucrativo.
Io ritengo, perciò, che sia possibile considerare verosimilmente altri modi del rapporto umano oltre il Lucrismo. E, tenendo sempre presente quella linea di studi sociali che ho indicato, per quanto mi riguarda fisserei allora tre modi esemplari di rapporto interpersonale: lo scambio lucrativo, lo scambio di reciprocità, la relazione comunitaria.
Oltre il Lucrismo di cui ho detto, perciò, anche le forme dello scambio di reciprocità e della relazione comunitaria.

Lo scambio di reciprocità, come indica la denominazione, è uno scambio in cui, a differenza dello scambio lucrativo, ciò che si dà e ciò che si riceve dovrà necessariamente tendere alla compensazione. Questa compensazione può consistere in equivalenza o in adeguatezza. La relazione di equivalenza è propriamente quella del rapporto di scambio prestabilito; ciò avveniva tipicamente nelle economie arcaiche, laddove quando una unità economica domestica (una famiglia di agricoltori) si ritrovava con carenza di un bene ed eccedenza di un altro, operava con altre unità domestiche degli scambi, ma secondo rapporti che erano già determinati (una certa quantità di olio contro una certa quantità di vino). Del resto, questa forma dello scambio ha avuto notevole utilizzo in tutto il corso della civiltà europea, ed ancora recentemente l' attuazione di prezzi “imposti” rappresentava proprio quell’ antica forma dello scambio.

Lo scambio di reciprocità assume invece il carattere della adeguatezza, fra ciò che si dà e ciò che si riceve, per esempio nelle relazioni che sono state studiate in popoli “primitivi” da una antropologia abbastanza recente[2]. In questo caso, lo scambio di reciprocità viene definito anche come modalità del “dono e controdono”. Ciò che si realizza, qui, non è immediatamente uno scambio; formalmente, qualcuno dona qualcosa ad un altro; il ricevente, tuttavia, resta obbligato in prospettiva sociale a ricambiare, con una controprestazione che non è stata contrattata, non è prestabilita, ma che, se il restituente vorrà mantenere la propria onorabilità ed integrità sociale, dovrà essere adeguata.
Il concetto di “dono” conduce allora alla terza forma di rapporto fra persone: la relazione comunitaria. Il termine comunità proviene dal latino cum e munus (“dono”). La comunità è perciò l’ ambito delle persone che si scambiano fra loro doni.

Ma il dono comunitario non è il dono di reciprocità: il dono comunitario è dono gratuito, è la forma più propria di questo atto. Il motivo del dono gratuito non sta in una compensazione concreta che viene a seguito, ma in una compensazione spirituale che si attua immediatamente. Nella comunità affettiva, il benessere dell’ altro si riflette in benessere proprio.

Che poi, nel vivere di una comunità, così come i membri danno agli altri ciò che possono dare, essi si attendono di avere ciò che sia possibile nel bisogno, è una realtà che tuttavia non muta la sostanza dei rapporti. Non è questa attesa che muove in origine i comportamenti. La relazione comunitaria non è fondata sulla reciprocità, così che nell’ attuarsi vero e proprio della comunità lo stesso concetto di scambio viene a perdersi. E non ponendosi più il problema di assumere un valore di scambio, per cose o prestazioni, l’ idea di denaro non mantiene alcuna necessità e significato.

Ma infine, dopo questo excursus compiuto in altri tempi, in altri luoghi, in costruzioni sentimentali e immaginative – se utopiche, tuttavia non per questo inevitabilmente irrealistiche – torniamo all’ effettività del presente. E’ nostro il mondo non della comunità ma della società – non ci si scambiano doni, si ricercano affari...

Per chi abbia pure intravisto la luce di un’ altra, possibile, esistenza umana, il ritrovarsi qui ed ora richiede un adattamento al negativo. Se non che, agli estremi, la saggezza imponga il nichilismo, l’ autodistruzione del suggerimento evangelico – se ti domandano il mantello, tu dagli anche la tunica... – l’ uomo sia pur di comprensione, di orientamento comunitario, dovrà fare i conti rispetto allo scambio e al denaro: e sarà meglio che i conti li faccia bene.
Ma per la buona salute – dello Spirito – sarà opportuno non tralasciare mai la propria aspirazione, anche fattiva, ad un “altro mondo possibile”, e la realizzazione concreta di altri valori, possibilmente, già nelle pieghe del mondo come esso ora è.

[1] Nei suoi lavori, Polanyi si richiama poi alle ricerche di antropologi come Richard Thurnwald, Marcel Mauss, Bronislaw Malinowsky.
[2] Degli studi molto noti in proposito sono quelli di Marcel Mauss, nel suo Saggio sul dono (1924).